Una prestigiosa sede per la fotografia in Italia apre le proprie porte al jazz ed alla sua iconografia. Lo testimoniano gli scatti del newyorkese Jimmy Katz e del bergamasco Luciano Rossetti, apprezzato anche all’estero. Katz (classe 1957) ha realizzato foto per 600 dischi e i suoi scatti sono stati utilizzati per 250 copertine di riviste; molti i volumi editi (tra cui “”F.Wolff and J.Katz Blue Note Photography”, 2009), innumerevoli le mostre. Da Sonny Rollins a Betty Carter moltissimi jazzisti/e son stati da lui ritratti. Anche Rossetti (classe 1959) ha al suo attivo centinaia di dischi e decine di copertine, come mostre personali e collettive in Italia e nel mondo. Trai i suoi libri “immaginare la musica” con Luca d’Agostino.

Luciano Rossetti, Il 27 luglio apre al MACOF la mostra “DUAL RHYTHMS Jazz, from faces to stages”, che ti vede con il celebre ritrattista jazz Jimmy Katz. Come è organizzata?
Il MACOF (Centro della Fotografia Italiana) è nel palazzo Martinengo-Colleoni, edificio storico nel centro di Brescia. Dei due spazi espositivi ne occupiamo uno e i nostri scatti (65 circa) si alternano stanza per stanza; nell’ultima sono esposte foto a colori di entrambi. L’idea è quella di far vedere il jazz in due modi diversi. Katz è quasi esclusivamente ritrattista, ha fotografato grandi musicisti da Sonny Rollins a Pat Metheny… Io ho questo mio sguardo sul jazz sempre un po’ laterale.

Mi piace far vedere i musicisti dietro le quinte, rilassati, in camerino, nel backstage, nel soundcheck. Sono intrigato da tale dimensione perché un fotografo mio mentore (Ruggero Giuliani) mi insegnava: “Guarda sempre dietro perché quasi sempre ci sono cose più interessanti”.  Preferisco far vedere l’artista in modo inusuale, più umano. Sono fotografo anche di teatro e sono convinto che i jazzisti siano attori e recitano sul palco, pur se il jazz è improvvisazione. A me interessano di più quando sono liberi.

Hai iniziato nei ’70 e molto è cambiato. Hai vinto nel 2021 e ‘24 il premio “Best Photo of the Year” della Jazz Journalist Association. Parlaci di mutamenti e risultati personali e collettivi, considerando la nascita dell’Associazione Fotografi Italiani di Jazz.
Il cambiamento c’è stato alla metà dei ’90 con l’ingresso del digitale, mutando il modo di fotografare, approccio, sensibilità… Nel jazz sono diventati tutti fotografi: il digitale è più facile ed immediato, però ha abbassato la percezione generale di cosa voglia dire fare fotografie. Il digitale c’è e lo utilizzo anche io da anni.

Enrico Rava, Parigi, 2020, foto di Luciano Rossetti

Non mi sento un fotografo da concorsi, ho bisogno di più scatti per raccontare però mi è capitato di vincerli. Quest’anno con la stessa foto che ha vinto il JJA (Susana Santos Silva), sono arrivato primo al Jazz World Photo, alla XI edizione nella Repubblica Ceca. Raccolgo i frutti di quarant’anni di esperienza in giro per il mondo.

L’AFIJ l’abbiamo fondata per fare gruppo e avere più voce nelle istituzioni. Costituitici nel 2019 (fondatori G.Arcamone, A.Baiano, G.Cardoni, R.Crimi, L.D’Agostino, U.Germinale, P.Ninfa, A.Palmucci, L.Rossetti, A.Rotili, D.Scali, P.Soriani. Presidenti Pino Ninfa 2019-‘22, seguito da Maurizio Magnetta, n.d.r.), facciamo parte della Federazione il Jazz Italiano (FIJI) assieme ad associazioni di festival, musicisti, etichette, scuole, docenti… Portiamo avanti le nostre rivendicazioni, organizziamo concorsi, facciamo mostre… Cerchiamo di accreditarci come categoria.

Con la mostra al MACOF (curata da Margherita Magnino e Carolina Zani, fino al 30 settembre) la foto jazz entra in un’importante sede della fotografia istituzionale. Che senso ha tale traguardo?
La foto jazz, come quella di spettacolo, è considerata la sorella povera di quella istituzionale, nel mondo e non solo in Italia. Negli USA Katz mi dice che la situazione sta rapidamente degenerando, tutti vogliono foto senza pagare o libere da diritti. Approdare ad una delle maggiori istituzioni nazionali per la fotografia spero sia un inizio.

Hai collaborato con tanti musicisti, fra cui William Parker. Ci vuoi parlare del tuo lavoro per il “Vision Festival” che Parker e Patricia Nicholson organizzano da anni a New York.
Seguo dal 2007 il “Vision festival” e faccio un po’ parte della “famiglia”, che vive a N.Y. nel Lower East Side e raccoglie musicisti dell’area improvvisazione-free. Ho esposto più volte nella rassegna. Nel pubblico c’è poco ricambio mentre negli ultimi anni – tanti anziani improvvisatori sono scomparsi – ci sono giovani musicisti: quest’anno uno dei migliori concerti è stato quello del nuovo quartetto della chitarrista Ava Mendoza.

Scegli, nelle foto in mostra, quella che ami di più e spiegaci il perché.
Le foto sono un po’ come i figli, difficile scegliere. Credo che, quando si fa una mostra, serva un curatore con un occhio esterno. Sceglierei lo scatto che vinse il premio JJA nel 2021 con Riccardo Pittau (trombettista, n.d.r.) seduto su una panchina in un paesino della Gallura che ha di fianco un anziano che lo guarda mentre suona.

La scelgo per vari motivi: sono innamorato della Sardegna, vi ho seguito e seguo festival; Riccardo Pittau è un musicista molto impegnato che apprezzo; con questo scatto ho vinto il prima riconoscimento internazionale. L’ho fatta durante “Isole che parlano”, festival organizzato da Paolo e Nanni Angeli che fa un discorso culturale legato al territorio in cui mi riconosco.

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Jimmy Katz, New York è la co-protagonista di molti suoi ritratti di jazzisti/e. Come crea il legame fra luoghi ed artisti? Le sue foto, bellissime, esaltano sia spazi che persone…
Sono nato a New York e credo sia una città fondamentale per il mondo del jazz.  Quando mi chiedo cosa mi piacerebbe vedere tra trent’anni dei musicisti con cui sto lavorando, la risposta è semplice: vorrei vederli nel contesto in cui vivono e creano la loro musica.

New York è anche in continua evoluzione, le mie foto sono testimonianza di un periodo specifico della storia della città. Voglio ritrarre i musicisti jazz come parte attiva della scena creativa di New York.

Lei non è solo fotografo ma tecnico del suono, produttore discografico e  organizzatore. Ci vuole parlare di “GIANT STEP ARTS”, la sua Associazione No Profit che finanzia progetti di jazz dal vivo?
La mia professione di fotografo di jazz è iniziata documentando centinaia di sessioni di registrazioni per la maggior parte delle principali etichette discografiche. Per quanto la qualità del suono fosse fantastica, continuavo a chiedermi come sarebbe potuta essere suonata in un contesto live.

Le registrazioni dovrebbero trasmettere l’energia e la carica emotiva di un concerto così da far sentire gli ascoltatori come se fossero in prima fila, nonostante siano sul divano di casa; mi piacerebbe che l’ascoltatore percepisse il sudore della fronte di Lonnie Smith o il fragore dei piatti di Elvin Jones.

Così dal 2018, quando ho fondato l’associazione Giant Step Arts, ho raccolto fondi, ideato e prodotto progetti jazz “dal vivo” in luoghi piccoli, intimi, dove i musicisti hanno il controllo totale della loro musica.

Il mio obiettivo è quello di sollevarli dalle pressioni commerciali e lasciarli liberi di creare musica, senza condizionamenti.

É un’esperienza gratificante: restituire qualcosa di artistico agli artisti che amo; dare ai musicisti la possibilità di avere il controllo totale sulla loro produzione artistica.

Scelga nelle sue foto in mostra al MACOF quella che ama di più e ci spieghi il perché.
Ogni foto che scatto ha una storia, ma se proprio ne devo scegliere scelgo il ritratto di Ornette Coleman, una delle figure più influenti del jazz moderno e non solo.

Prima di entrare nel suo loft, nell’elegante Garment District di Manhattan, ero entusiasta ma anche teso, ma il suo atteggiamento gentile e alla mano mi mise subito a mio agio.

La casa era il riflesso di Coleman: una persona veramente originale. Non c’erano porte, gli spazi aperti come la sua mente e pieni di incredibili opere d’arte. Lo fotografai davanti a un quadro stellato, mentre era assorto nei suoi pensieri, come se contemplasse l’universo in espansione.