In uno dei vialetti del Cemeterio General di Valencia, ogni due di giugno, un gruppo di donne usa riunirsi tra mazzi di fiori, pugni chiusi e bandiere anarchiche, intorno a una lapide di pietra grigia sulla quale è incisa la frase «Ma… è vero che la speranza è morta?», seguita da un nome e da una data: un piccolo ma significativo omaggio alla memoria di Lucía Sánchez Saornil, una delle figure femminili più interessanti e troppo a lungo dimenticate della Spagna novecentesca.

Sempre più spesso rievocazioni, video e documentari che la riguardano vanno sommandosi a saggi, raccolte di articoli e antologie di versi, come il Romancero de Mujeres Libres, pubblicato per la prima volta nel 1937 e riapparso il 13 dicembre a cura della CGT, a testimoniare un crescente interesse per la vita e il pensiero di una donna eccezionale. E il frutto più recente di questo lento riaffiorare è Ho sempre detto noi. Lucía Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile (Viella, pp. 384, euro 35), appassionante e minuziosa biografia compilata dalla giovane studiosa italiana Michela Cimbalo, un testo che non si limita a esplorare le vicende di Lucía, nata nel 1895, ma le inquadra in un contesto storico e culturale, illustrando dettagliatamente la condizione delle donne spagnole sotto regimi diversi.

Dallo sfondo dei quartieri popolari di Madrid ci viene così incontro il profilo aguzzo di una ragazza minuta, rimasta precocemente orfana di madre e che sin da giovanissima si è dovuta far carico del padre e della sorella malata, ma che non ha mai smesso di leggere e studiare, riuscendo a conquistarsi un’istruzione, a prendere lezioni di pittura e a debuttare con versi ancora acerbi, appena quattordicenne, su un modesto settimanale.

L’ACCESSO AL MONDO della letteratura non era facile nemmeno per altre e ben più privilegiate componenti della cosiddetta Generazione del ’27, ma, nonostante tutto, la proletaria e autodidatta Lucía a poco più di vent’anni diventa l’unica donna poeta dell’ultraismo, effimera avanguardia aperta alle influenze futuriste e dadaiste, che, tramite Borges e suo cognato Guillermo de Torre, si sarebbe insediata brevemente in Argentina. Sono, quelli che Lucía pubblica sui giornali ultraisti, versi pieni di esplicito desiderio per il corpo femminile, firmati con uno pseudonimo maschile (Lucíano de San-Saor) nato non tanto dall’ansia di nascondersi, come sottolinea Michela Cimbalo, quanto di giocare con l’identità di genere e di alludere alla propria «sessualità dissidente», in un’epoca che vedeva l’amore tra donne come una malattia o una perversione.

Ben presto, però, assunta dalla compagnia Telefónica (che nel 1931 la licenzia per la sua attività sindacale), Sánchez Saornil entra nell’orbita del movimento anarchico, si iscrive alla Confederación Nacional de Trabajo e rinnega l’ ultraismo per consacrarsi alla politica e al giornalismo, occupando ruoli di spicco nelle principali pubblicazioni anarchiche e assumendo posizioni sempre più battagliere e polemiche, che le attirano le diffidenza di molti esponenti libertari.

NEI SUOI ARTICOLI su Solidaridad Obrera, Tierra y Libertad e La Revista Blanca venivano sottolineate con vigore le contraddizioni dei compagni di militanza, che, pur dichiarando di voler trasformare profondamente ogni aspetto della società, incluse le relazioni tra i sessi, nella pratica quotidiana imponevano alle donne il rispetto dei ruoli tradizionali, confinandole nell’ambito dei doveri domestici e soprattutto della maternità, in perfetto accordo con le norme patriarcali.
Nei suoi fiammeggianti testi Lucía affronta temi come il matrimonio (per le donne sprovviste di qualsiasi risorsa, scrive, equivale alla prostituzione), critica la doppia morale sessuale mai cancellata dall’aspirazione anarchica all’amore libero, e afferma che essere madre rappresenta solo una possibilità fra le tante e non una missione sacra, legata a un ineludibile destino biologico: una tesi che nella Spagna di allora, appariva audacissima ed era avversata anche da autorevoli personalità anarchiche come Federica Montseny («Una donna senza figli è un albero senza frutti, un rosaio senza rose»).

Da queste premesse nasce, nel 1936, l’organizzazione Mujeres Libres, fondata poco prima della guerra civile da Sánchez Saornil, Mercedes Comaposada e Amparo Poch, insieme a una rivista dello stesso nome che vanta una grafica audace, illustrazioni pregevoli e foto non banali, scattate a volte dalla grande fotografa Kati Horna, con la quale Lucía collabora anche sulle pagine del giornale anarchico Umbral.

MUJERES LIBRES non è affatto, come si è tentati di credere, una delle tante «sezioni femminili», spesso create a scopo puramente strumentale per garantirsi il voto delle donne, introdotto in Spagna nel 1931; le fondatrici, Lucía per prima, sono convinte che l’emancipazione può mettere radici solo in spazi liberi dall’autorità e dall’influenza maschili (l’organizzazione è forse l’unica pensata, creata e gestita interamente da donne), attraverso un’adeguata formazione che garantisca a tutte l’accesso all’indipendenza economica e a una coscienza nuova, così da renderle padrone di sé stesse e del proprio corpo, e poter scegliere, se lo desiderano, una maternità consapevole.

Gelosamente autonoma, Mujeres libres rimane comunque fedele ai principi dell’anarchia: quello che propone è un femminismo proletario e di classe, pronto a lottare per la rivoluzione sociale, e se l’esplicita definizione di «femminista» viene rifiutata, è perché all’epoca il termine si identifica con il riformismo borghese delle suffragette.
Nel corso della guerra, grazie a una fitta di rete di gruppi attivi su buona parte del territorio spagnolo, Mujeres Libres si diffonde al punto da contare su almeno ventimila membri, che si prodigano in innumerevoli iniziative concrete a sostegno della popolazione civile e della Repubblica, organizzando corsi professionali, di alfabetizzazione e di puericultura, mense popolari, distribuzioni di viveri, asili d’infanzia.

IN QUANTO SEGRETARIA nazionale di Mujeres Libres e redattrice della rivista, Lucía Sánchez Saornil è ovunque, e allo stesso tempo continua una febbrile attività giornalistica, fatta di reportages dal fronte e programmi radio, oltre a diventare capo redattrice di Umbral e ad assumere, nel ’37, la carica di segretaria della Società Internazionale Antifascista, creata dalla CNT per sollecitare all’estero aiuti e solidarietà.

Nel ’39, però, la vittoria di Franco la costringe a intraprendere il durissimo cammino dell’esilio insieme ad América (Mery) Barroso, che tre anni prima era diventata la sua compagna di vita e che lo sarebbe rimasta sino alla fine. In Francia le attende l’ostilità di un governo che disperde i profughi spagnoli in spaventosi campi di concentramento, e, benché Lucía si prodighi per alleviare le loro condizioni, nel 1942 l’assidua sorveglianza della polizia e la minaccia di essere deportata in Germania la convincono a rientrare clandestinamente in Spagna, dove lei e Mery condurranno una vita di privazioni, rischiando costantemente di venire arrestate in quanto anarchiche, repubblicane e lesbiche: il loro orientamento sessuale, un tempo liberamente vissuto, è ormai un reato che può farle rinchiudere in carcere o in manicomio, per essere «rieducate».

Accolte infine nella casa valenciana della famiglia Barroso, si guadagnano da vivere confezionando retine per i capelli o lavorando per un laboratorio di ritocco fotografico, finché Mery non viene assunta come impiegata al consolato argentino e Lucía si inventa pittrice di ventagli. Isolata e silenziosa, lontana da ogni attività politica, trascorre un trentennio nel più assoluto anonimato, lasciando tracce così lievi da non essere quasi avvertibili, in una Spagna che aveva privato le donne di ogni diritto conquistato durante la Repubblica, riportandole indietro di secoli, sotto il ferreo controllo di uno regime spietato, misogino e androcentrico.

ALLA SUA MORTE, avvenuta nel 1970 per un cancro ai polmoni, Lucia non lascia diari, epistolari o memorie, ma nuove poesie che assomigliano a brace sotto la cenere e rivelano l’impossibilità di non arrendersi del tutto. Sono i suoi versi migliori, differenti sia da quelli del periodo avanguardista che dalle strofe militanti degli anni successivi, e in parte riuniti in un volume postumo curato da Rosa María Martín Casamitjana (Pre-Textos, 1996) in cui si riflettono la sconfitta, la malattia, i dubbi, l’angoscia per l’avvicinarsi della fine, ma non la negazione di tutto ciò in cui ha creduto. L’ultima testimonianza, insomma, su una vita coraggiosa e piena, fatta di scelte e intuizioni sorprendentemente contemporanee, tanto da indurci a pensare, ogni volta che il nome di Lucía Sánchez Saornil viene pronunciato: qual è il femminismo di cui abbiamo bisogno, per cambiare la vita e la condizione di tutte e di ciascuna?