Incontro Lucia Poli durante una pausa delle prove di Servo di scena. Lucia affabula con i suoi racconti di teatro e di vita. Sempre piena di vitalità, d’ironia ma, soprattutto, di intelligenza.

Qual è l’essenza etica e politica del teatro?
Ho notato che il teatro migliora le persone, non solo è terapeutico per chi lo fa, ma educa alla riflessione e all’elaborazione dei sentimenti il pubblico che lo accoglie. I bambini, giocando al teatro, imparano la vita. Le peggiori paure e le crudeltà più atroci si sciolgono nella metafora della rappresentazione. Tutte le forme di espressione artistica arricchiscono il mondo interiore, naturalmente, ma tra queste il teatro è l’unico (con la poesia civile) che si pone al centro della società e la rappresenta. Si può dire che abbia una valenza politica: parla sempre dell’oggi, vive nel momento in cui avviene anche quando apparentemente usa il linguaggio della tragedia greca o della commedia borghese.

Nel ’74 a Roma hai fondato in un garage uno spazio off con due sale: l’Alberico e l’Alberichino. Qui sono nati i tuoi principali lavori, tra cui il monologo del ’76 «Liquidi» con cui hai esordito come scrittrice, regista e interprete. Ci racconti quel periodo?
Troppo ci sarebbe da raccontare. In realtà nel ’74 partecipai alla stagione del Beat 72, cantina storica dell’avanguardia romana consacrata dagli spettacoli di Carmelo Bene. Con dei compagni di strada imbastimmo una serie di lavori in cui ci scambiavamo attori, collaboratori tecnici, idee. Con alcuni di essi (Donato Sannini, Rosa Di Lucia, Bruno Mazzali) l’anno dopo fondammo l’Alberico, spazio polivalente nato da un vecchio garage in zona Prati, che disponeva anche di una cantinetta sottostante. L’esperienza di lavoro comune maturò pienamente e all’Alberico nacquero i nostri migliori spettacoli di quegli anni. Erano anni in cui si percepiva la forza del «movimento»: il teatro tradizionale mostrava la corda e il pubblico – soprattutto giovani e intellettuali – veniva da noi in cerca di sensazioni nuove e con la voglia di essere stupito. Riuscimmo a sopravvivere per cinque anni, riempiendo le due sale fino all’inverosimile (quella di sotto era veramente piccola, conteneva al massimo 80 persone) ma, quando iniziò il periodo del cosiddetto «riflusso», decidemmo di chiudere. Nell’Alberichino fummo costretti, dall’esiguità dello spazio, a reinventare il monologo. Era l’epoca in cui imperversava il cabaret, dove l’attore si rivolgeva direttamente al pubblico con intenti comici o comunque d’intrattenimento. I nostri monologhi invece erano teatro di finzione in piena regola, c’era un solo personaggio nella piccola pedana a ridosso del pubblico, ma viveva la sua storia al riparo della quarta parete. Così sono nati Cioni Mario di Roberto Benigni, Io e Majakovskij di Donato Sannini, il mio Liquidi e tanti altri. Liquidi fu quello che ebbe più successo in quel periodo, lo rappresentai dovunque, dai più piccoli paesi della provincia italiana fino al festival internazionale di New York. Mi aiutò a maturare un’identità e a intraprendere un percorso. Continuai negli anni successivi a fare spettacoli che approfondivano la psicologia femminile e ne mostravano le fragilità, le forze, le problematiche, con particolare attenzione all’ironia e autoironia. Brevemente ricordo alcuni nomi di scrittrici cui mi sono ispirata: Karen Blixen, Dorothy Parker, Patricia Highsmith, Colette…

Cosa provi quando passi davanti agli spazi storici della sperimentazione teatrale degli anni 70 e li vedi mutati in fast food, centri commerciali, eccetera?
Non vivo di rancori o frustrazioni, non ho rimpianti, quindi accetto il presente, anche con tutte le brutture che ha. Se non ci sono più le cantine della sperimentazione (che detto fra di noi erano fredde, umide e scomode) ci sono altri spazi dove nascono comunque nuove idee e nuove forme di espressione. È vero che a volte i peggiori hanno più visibilità, ma il mio ottimismo mi fa sperare che da qualche parte, magari nascosti o appartati, ci siano dei giovani straordinari…

La centralità della cultura di quegli anni è dunque un vago ricordo. Negli anni successivi, come e se, è cambiato il tuo impegno teatrale?
All’inizio degli anni 80 è nato mio figlio, di conseguenza la mia vita e il mio lavoro hanno cambiato ritmo. Nei due spettacoli realizzati con mio fratello Paolo in quel periodo, abbiamo fatto all’antica italiana, portandoci il bambino appresso: noi in scena e il pupo nella cesta (si fa per dire!). Poi ho cercato di stare più ferma a Roma: ho fatto seminari e laboratori per giovani attori e soprattutto attrici, e ho cercato disperatamente un luogo dove fare teatro stanziale. Non ci sono riuscita del tutto, ma ho intrapreso un rapporto intenso col Teatro dell’Orologio, poi con La Cometa e con il Teatro Flaiano.

All’Orologio, che era una cantina nata un po’ in ritardo e quindi ancora molto attiva, ho proseguito la mia ricerca autoriale, ho iniziato la collaborazione con la scrittrice Valeria Moretti facendo debuttare un gruppo di giovanissime attrici, danzatrici e musiciste. Negli altri teatri, di struttura tradizionale, anche se di piccole dimensioni, ho maturato il mio lavoro di attrice, spesso solista, interpretando testi di altri autori con cui ero venuta a contatto stringendo solide amicizie: Roberto Lerici, Stefano Benni, Ugo Chiti. Alla fine, negli anni 2000, ho trovato una nuova «casa» dove vivere il teatro, entrando nel gruppo del Teatro di Rifredi, diretto dal regista Angelo Savelli, a Firenze, proprio nel quartiere in cui sono nata.

Un vero ritorno a casa. È chiaro che il mio stile negli anni è cambiato, sono diventata un’interprete più che un’autrice o una regista. La sperimentazione è diventata il modo di approfondire la mia personalità e la mia recitazione. Non avendo più le energie e la megalomania della giovinezza, mi sono via via concentrata su quello che mi piaceva di più e mi riusciva meglio, rinunciando a coprire tutti i ruoli.

Non si può non parlare di tuo fratello Paolo e del vostro straordinario rapporto. Avete lavorato insieme in vari spettacoli. È stato dissacratore di luoghi comuni e pregiudizi. Cosa ricordi e cosa ti manca di quel rapporto ‘d’amore’ fraterno, concepito con intelligenza, abilità, cinismo surreale, creatività, irrisione impetuosa e sconfinata cultura?
Paolo è stato per me un fratello maggiore, ma anche un maestro di teatro e di vita. La sua lezione di libertà di pensiero, di leggerezza e profondità mi hanno influenzato fino da bambina, quando mi faceva i ritratti all’acquerello o mi tagliava i capelli, raccontandomi i film e gli spettacoli che aveva visto. Il fatto che fosse già un attore famoso quando ancora io studiavo, mi ha allontanato inizialmente da questo mestiere e così, appena laureata, ho iniziato a insegnare lettere in un liceo.

Poi, pian piano, arrivando a Roma ed entrando in quel mondo fantastico in cui soffiava il vento dell’avanguardia culturale e del femminismo, ho trovato la forza di superare la mia insicurezza e di accettare il confronto. Insieme abbiamo fatto quattro spettacoli: nei primi due, Apocalisse e Femminilità, realizzati negli anni 70, sono entrata nella sua Compagnia, nel suo mondo, nel suo stile, cosciente d’essere più fragile e faticando a distinguermi. Poi, nel decennio successivo, con Paradosso e Cane e gatto, abbiamo consolidato la collaborazione, giocando a essere solo noi due in scena, fratelli dichiarati, alleati e bisticcianti, identici e contrari, affabulatori un po’ folli e surreali. Allora ci siamo divertiti davvero.

Con l’ultimo spettacolo avremmo potuto continuare per anni, tanto era il successo e la richiesta ma, come ho già detto, mio figlio m’imponeva nuovi ritmi di lavoro e Paolo non voleva rinunciare ai suoi sei mesi di tournée e al suo protagonismo assoluto. Abbiamo continuato a collaborare fino all’ultimo, scambiandoci pareri, consigli, critiche e conforto. E adesso lui è rimasto dentro di me come presenza costante.

Nonostante la pandemia, quali spettacoli stai portando in tournée e che progetti hai in cantiere?
Sto provando con Geppy Gleijeses «Servo di scena» al teatro Quirino di Roma. Dovremmo debuttare quest’inverno. Speriamo di riuscire a realizzare la tournée prevista da febbraio ad aprile. In questo momento dobbiamo parlare di buoni propositi…Ho anche due monologhi, già realizzati nella scorsa stagione, che dovrebbero girare tra novembre e dicembre: si tratta di un concerto-spettacolo su Alberto Savinio con il pianista Marco Scolastra e di un recital sugli animali con Rita Tumminia all’organetto. Tutto è incerto, ma fermarsi porterebbe alla depressione, il lavoro e lo studio sono la mia ancora di vitalità.