I gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani ai lati del volto, i piedi nudi che si sfiorano l’uno appena sovrapposto all’altro: Chiromante è il titolo dato dall’autrice a quest’immagine scattata in Jugoslavia nel 1932. Probabilmente, per Lucia Moholy (Praga 1894 – Zurigo 1989), una licenza poetica, suscitata dall’incontro con quella donna vestita di stracci, seduta sugli scalini. La fotografia è esposta nella retrospettiva Lucia Moholy: Exposures nelle sale della Kunsthalle Praha a Praga (fino al 28 ottobre), curata da Meghan Forbes, Jan Tichy e Jordan Troeller e realizzata con Fotostiftung Schweiz Winterthur che ospiterà la mostra nel 2025.

In realtà le foto sono due e mostrano l’attenzione meticolosa di Lucia Moholy per il messaggio: nella prima, una stampa vintage alla gelatina ai sali d’argento proveniente dalla collezione della fondazione di Winterthur, l’inquadratura contiene una parte dello sfondo con le sagome di due bambini, mentre l’altra, di dimensioni maggiori, si concentra sul soggetto tagliando fuori ogni altro elemento. Costruire l’immagine sperimentando sempre l’uso di tecniche e materiali è una parte irrinunciabile nel processo creativo di Lucia Moholy, che la porterà successivamente ad avvicinarsi alla riproduzione fotomeccanica, in particolare all’uso del microfilm negli anni in cui vive a Londra (dove emigra nel 1934), dopo la distruzione del suo studio in Mecklenburgh Square a causa dei bombardamenti tedeschi del settembre 1940.

Allora la collaborazione con il filosofo viennese Otto Neurath (a lui si deve lo sviluppo dei moderni pittogrammi e sistemi di rappresentazione Isotype – International System of Typographic Picture Education) fu decisiva nell’ottenere l’incarico di responsabile della riproduzione in ambito archivistico con il metodo del microfilm, prima alla Cambridge University, poi come direttrice della ASLIB Microfilm Service al Victoria and Albert Museum. Del resto il lavoro d’archivio con il coinvolgimento di istituzioni tra cui il Bauhaus-Archiv di Berlino, il Photo Elysée a Losanna e la National Gallery di Londra è stato fondamentale per le ricerche che hanno condotto alla realizzazione di questa retrospettiva e dell’omonimo catalogo, curato da Jordan Troeller e pubblicato da Kunsthalle Praha con Hatje Cantz.

A Praga Lucia Moholy (all’anagrafe Lucie Schulz) era nata, in una famiglia ebraica ceco-tedesca. Proveniva da Karlin, ex quartiere industriale della città magica, che all’epoca era sotto l’impero austro-ungarico, e lì visse fino al 1915. Le diverse sezioni della mostra – da «Inquadrare l’immagine» a «Dispacci da Zurigo», con interventi artistici di Jan Tichy – includono documenti cartacei e fotografici, negativi e stampe originali, restituendo aspetti meno noti del lavoro di quest’artista che è stata a lungo all’ombra del marito László Moholy-Nagy.

Tra il ’23 e il ’28, negli anni in cui visse con lui a Weimar e Dessau, documentò diversi aspetti della Bauhaus – architettura, laboratori, oggetti di design, membri della scuola –, ma solo dopo anni di battaglie legali Walter Gropius le restituì 242 negativi, di cui quasi altrettanti risultano tuttora dispersi. Prive dell’indicazione autoriale, le sue fotografie rimasero a lungo anonime: nel ’46, un anno prima di prendere la cittadinanza britannica, ebbe modo di riscoprirle tra i negativi della Bauhaus.

A questo nucleo di fotografie è dedicato il saggio in catalogo di Robin Schuldenfrei, dove si parla di immagini «accuratamente composte, illuminate e stampate». Nel delineare l’importanza del corpus fotografico, soprattutto a partire dal 1933, quando la scuola fu chiusa (al MoMa, nel ’38, fu organizzata la mostra Bauhaus, 1919-1928), la studiosa afferma che «da una parte le fotografie di Moholy dei prodotti della Bauhaus dovrebbero essere intese come ritratti intimi e ben informati – simili ai suoi penetranti ritratti di persone – della produzione della scuola. Ne esemplificano i risultati rendendo la scuola accessibile (almeno visivamente) a un pubblico molto più ampio di quanto la Bauhaus sia mai stata in grado di avere sul mercato. D’altro canto non va trascurato, però, il carattere fotografico delle opere di Moholy; tali fotografie, nella loro serialità, erano all’origine del potenziamento di significato dei prodotti raffigurati, e quindi diffuse più come immagini che come oggetti».

Da Praga alla Germania, da Londra alla Svizzera, una lunga vita personale e professionale, quella di Lucia Moholy, che fu anche autrice del popolare saggio sulla storia della fotografia A Hundred Years of Photography 1839-1939, pubblicato nel 1939 partendo dall’idea di un photo book e divenuto immediatamente un best seller con quaranta milioni di copie vendute nella collana inglese «Penguin Specials». A Londra, tra l’altro, Lucia fu membro della Photographic Society of Great Britain. In mostra è ricostruita anche la personale a lei dedicata dalla Galerie Renée Ziegler di Zurigo nel 1981, quando aveva 87 anni, accompagnata da una serie di intensi ritratti in bianco e nero realizzati negli anni settanta-ottanta da Hans Peter Klauser, Thomas Burla e, in particolare, da Giorgio Hoch, che collaborò con la fotografa dal 1972.

Ma la coerenza dell’intensa storia di Lucia Moholy è affidata piuttosto ai frammenti intimi di cui testimoniano molte delle sue fotografie, soprattutto alla fine degli anni venti. Di quel periodo sono immagini in cui risalta l’attenzione alle mani: le mani di Gisela Schulz sulla nuca, quelle di Gabrielle «Yella» Curjel sugli occhi, le mani di Georg Muche e quelle di Clara Zetkin, le mani di una donna che pela le patate (dalla serie Working Hands) e quelle della piccola Lucia Curjel che afferrano una Kodak Baby Brownie di bachelite. Ritratti non convenzionali, che non ingannano, espressione di un gesto, insieme metaforico e reale.