All’inizio c’è il titolo, Darwin inconsolabile per esempio, sì proprio lui, il filosofo della teoria evolutiva ormai un po’ superato che nel lessico famigliare dei protagonisti somiglia a Babbo Natale, con le sembianze di un vecchietto e la barba bianca in quello strano presepe di ogni specie vivente. Chi è allora questo Darwin? Una manoscritto perduto e ritrovato, la «bugia» salvifica della mamma fantasiosa alla figlia spaventata, la leggenda di famiglia. E l’ispirazione di un titolo che contiene molte possibili direzioni, perché per Lucia Calamaro i titoli sono l’origine della sua scrittura, da lì comincia tutto. Spiega: «Per realizzare uno spettacolo ci metto anche tre o quattro anni, e così l’argomento a cui si riferisce il titolo so che quando andrà in scena sarà già ’vecchio’». Ci incontriamo a Roma un bel pomeriggio di sole in un bar di Viale Aventino dove abita. Autrice teatrale, regista, attrice dagli esordi – Guerra; Cattivi maestri; Tumore, uno spettacolo desolato – compone una cartografia umana di traumi, angosce, nevrosi che raccontano attraverso personaggi e soprattutto con una scrittura teatrale netta e mai compiaciuta un sentimento dello stare al mondo universale. La sua prima nota è l’ironia, si ride tanto, si ride sempre anche se si parla di malattia o di morte negli spettacoli di Calamaro, e ci si ritrova con emozione e tenerezza.

Il «segno» che caratterizza i tuoi personaggi è l’ironia. Sia quando danno voce a teorie o a pensieri comuni del nostro tempo che quando si confrontano con dolori antichi e universali, paure, fragilità che attraversano ogni esistenza umana.

Con loro provo a sorridere un po’ del mondo, della vita, dell’umano, di quelli che si prendono terribilmente sul serio – che è una delle qualità umane che mi piace meno. Le persone che mancano di autoironia le rispetto ma la mia cifra è diversa: parto da una convinzione, che non sto al mondo sul serio ma per sbaglio come tutti, e visto che questa mia presenza è un incidente cerco di rialzarmi costantemente. In Darwin inconsolabile a un certo punto si parla di Eduardo de Castro, è un pensatore capace di ridere di sé, le sue conferenze sono sempre molto autoironiche. La maggior parte dei pensatori però non è così, sono seri, compresi nel ruolo: è un attitudine che non mi appartiene e che non si ritrova nei miei personaggi ai quali infondo sempre una buona dose di ironia. Lo spettacolo con cui ho iniziato si chiamava Tumore, faceva ridere nonostante il soggetto che affrontava. Non credo che prendere la vita di petto sia una grande strategia, funziona meglio affrontarla obliquamente almeno per me, aiuta a non esserne schiacciati. È un po’ come infilarsi in una fessura. In un altro mio spettacolo, L’origine del mondo, si parla della depressione e del dolore eppure si ride moltissimo. Adoro far ridere, mi piacerebbe che anche gli altri mi facessero ridere, la gente però è spesso noiosa, per questo cerco in ogni modo di evitare la noia.

Cosa intendi per noia?

È quando non si fa nessuno sforzo nel linguaggio per essere attraenti, per fabbricare o scegliere le parole con cura, dando per scontato che l’altro ti stia a sentire. E invece si dovrebbe sempre pensare a chi ti ascolta, al potenziale destinatario di queste parole senza dare mai nulla per scontato. Quando scrivi per il teatro devi pensare al pubblico, allo spettatore che è uscito di casa, si è vestito, profumato per venire a assistere alla tua creazione e esserne partecipe. Voglio che il pubblico sia contento, voglio farlo ridere, ha fatto la sua parte e io devo fare la mia; per questo ci vuole uno sforzo, uno spettacolo non può essere la semplice bella copia di cose già viste o dette.

La tua scrittura è molto potente ma ogni spettacolo non ne è mai l’illustrazione. È anzi come se il testo viva sulla scena formando un corpo unico col resto.

Il teatro non è la parola e neppure un testo astratto, la scrittura per il teatro deve comprendere in sé una serie di elementi «vivi», a cominciare dal pubblico che ci deve entrare, e dai corpi degli attori, dalle loro espressioni, dalla fisicità con cui questa parola si confronta. Un’opera prende forma per me dopo almeno trenta repliche. Quando sono lì e sento il rumore del pubblico mi accorgo di quei dettagli che non funzionano grazie anche alle reazioni diverse ogni sera. La ripetizione per me è la morte, forse per questo non vado in scena, mi capita se devo sostituire qualcuno però mi annoio subito con le mie parole e mi viene da cambiarle sul momento creando grandi difficoltà agli altri. So che è un mio limite.

Parlavi degli attori che sono fondamentali specie rispetto a questa relazione con il testo. Ci sono caratteristiche a cui devono rispondere?

Mi devono essere simpatici, se non c’è simpatia umana diventa molto difficile stare ore e ore assieme. E devo volergli bene, il nostro incontro artistico è una forma d’amore. La scelta è guidata da un’empatia e non dalla ricerca di un tipo fisico. A partire da qui durante le prove si costruisce un lavoro che passa per l’improvvisazione, la confidenza, la scoperta di quelle «zone» dell’attore con un’energia e un emozione che funzionano meglio. È un lavoro che prende un po’ di tempo, per creare uno spettacolo ci metto anche tre o quattro anni, solo i titoli mi arrivano subito in testa come folgorazioni.

Sei nata a Roma, hai vissuto in Paraguay, hai studiato a Parigi e sei tornata a Roma. Quanto entra questo muoversi da un continente all’altro nella tua poetica?

Mi ha permesso una grande apertura mentale, è come la sintesi di tre universi, da quello spagnolo ho preso il ragionamento, dal francese il pensiero, dall’italiano la simpatia. Il trilinguismo poi è un lusso, quando scrivo passo mentalmente da una lingua all’altra.

È nella distanza narrativa che riesci a mediare gli elementi della scrittura, autobiografia, sguardo sul mondo, emozioni?

Non metto distanza, scrivere per me è cadere dentro le cose, prenderne atto, avvicinarmi alla questione quale è, anche se sfugge, si sposta, appare inafferrabile. Per capire il mondo devo reinterpretare la realtà, creare strumenti di comprensione dentro un tempo delle idee che non è quello del reale e della materia.

In «Darwin inconsolabile» sembra che tu abbia una predilezione per la madre, artista sessantottina, egocentrica ma molto determinata rispetto a quei figli che continuano a rappresentarsi come tali.

Mi piacciono tutti i miei personaggi, gli attori sono lì per creare uno spazio e un senso in cui non ci sono figure principali. Nel rapporto della madre coi figli vedo qualcosa che riguarda quello tra le diverse generazioni oggi. Spesso mi chiedono quali sono i miei maestri: ma io non ne ho nel senso che ci sono stati incontri, letture, scoperte importanti e quello che faccio arriva anche da lì. Però ho ucciso in qualche modo i miei genitori di una certa Italia teatrale. Molti giovani artisti del presente si sentono sempre «figli di» attaccandosi a questa filiazione come a un appiglio o indicandola come un ostacolo alla crescita. Io dico, se vuoi una cosa lotta per averla specie in un paese come questo che non riconosce mai l’età adulta.