Yoji Yamada è uno di quei nomi che spesso vengono dimenticati o tralasciati quando si parla e si scrive di cinema giapponese post bellico: i grandi classici quali Kurosawa, Ozu, Mizoguchi sono i primi che vengono in mente, oppure il cinema ribelle degli anni ’60 e ’70 come quello di Oshima o Yoshida. Eppure Yamada per alcuni studiosi del cinema dell’arcipelago andrebbe messo nella stessa categoria, anche se non allo stesso livello, di un Ozu o di un Naruse e questo perché il regista giapponese la cui carriera si estende per sei decenni, è stato ed è ancora, alla veneranda età di 86 anni, un cantore di quei drammi familiari che tanto hanno contribuito a forgiare il cinema dell’arcipelago.

In patria così come a livello internazionale Yamada è noto soprattutto per i 48 film dedicati a Tora san, vagabondo scansafatiche creato dallo stesso regista e sempre interpretato da Kiyoshi Atsumi dal 1969 fino al 1995. Oppure per la sua trilogia dei samurai agli inizi di questo millennio, senza dimenticare il notevole The Yellow Handkerchief (1977) con un Ken Takakura in gran spolvero. Ma il cineasta giapponese, la cui carriera si è sviluppata quasi sempre con la Shochiku, casa di produzione che Yamada di fatto salvò dalla bancarotta grazie proprio al successo di Tora san, è autore di notevoli lungometraggi anche negli anni più recenti.

Certo, il suo stile è anni luce lontano da quello iconoclasta e antisistema di Sion Sono, solo per fare un nome giapponese di rilievo nel panorama internazionale, eppure il suo cinema pur rimanendo fedele al genere familiare che lo ha reso popolare, se visto e analizzato da vicino è ricco di mille sfumature e di luci e ombre che a prima vista potrebbero sfuggire. Come ha giustamente fatto notare Dario Tomasi: «Negli ultimi anni della sua carriera Yamada ha dimostrato una forza e intensità espressiva che ci permettono di annoverarlo fra i grandi autori classici del cinema del suo paese, e anche se quello di Yamada è un classicismo un po’ ’fuori tempo massimo’, è proprio in parte da tale essere ’fuori moda’ che deriva il fascino dei suoi film, come possibile e viva alternativa ai modelli postmoderni che – nel senso ampio del termine – dominano il cinema contemporaneo giapponese».

Ecco allora che la mini retrospettiva «Cronaca famigliare infinita. Il cinema di Yoji Yamada» che Fuori Orario dedicherà alla produzione recente del regista a partire da venerdì16 marzo, è un’occasione da non perdere per (ri)scoprire un’autore il cui cinema ha ancora molto da dare. In una serie di otto puntate saranno presentati sei lungometraggi del regista giapponese: si parte con The Little House del 2014, un piccolo capolavoro con cui Yamada racconta il periodo che precede, attraversa e segue il secondo conflitto mondiale e le velleità di conquista del Giappone imperiale. Con tre piani temporali che si incrociano e con un’incredibile interpretazione fatta di silenzi e per sottrazione di Kuroki Haru, il film porta sul grande schermo la vita quotidiana di una famiglia borghese durante la mobilitazione di massa, con tutte le sue ombre e le, poche, luci.

In ordine di messa in onda seguiranno Kyoto Story del 2010 e Kabei/Our Mother, un toccante e lancinante racconto anch’esso ambientato durante e dopo il periodo bellico, con una prova corale d’attori davvero da ricordare, fra cui spiccano Asano Tadanobu e Sayuri Yoshinaga. La rassegna continuerà con Tokyo Family, il non troppo riuscito remake di Viaggio a Tokyo di Ozu, e Ototo – About her brother, e si concluderà con Love and Honor, film ambientato nel periodo Edo e ultimo atto della trilogia dei samurai che Yamada realizzò fra il 2002 ed il 2006 con Twilight samurai e The Hidden Blade.