Qui Napoli Nord, assi autostradali e svincoli pieni d’immondizia tra Marianella e Piscinola, grigia periferia di case popolari, povertà assoluta e degrado dappertutto, con un clima di aggressiva violenza quotidiana, con gente sparata per strada e donne affacciate ai balconi per curiosare, dove la vita vale poco e niente. «Dove si muore per uno sguardo di troppo, una miserabile partita di droga non pagata, la maldicenza di un infame, oppure perché stai semplicemente parlando con una ragazza». Dove il sangue scorre lungo le strade per agguati, omicidi, furore contagioso e si è costretti a guardare la macchia bianca di un cervelletto spappolato sull’asfalto o le viscere contorte di un panzone, anche se stai solo camminando con un amico.

DA LÌ È PARTITO Luca Imprudente, al secolo Luchè, inventore dei Cosang (ma inizialmente il duo, con Antonio Biccardi detto ‘Nto, si chiamava Co’ ssanghe) nel 1997, band dura e pura lanciata dall’album Poesia Cruda e dal primo successo, Int’ o rione, che oggi è una stella luccicante del rap nazionale, dopo aver intrapreso una carriera da solista alcuni anni fa. Adesso Luchè ha scritto l’autobiografia, in prima persona, Il giorno dopo (con l’aiuto di Rosario Dello Iacovo, nostro collaboratore e già biografo dei 99 Posse, p.224 più 32 foto dell’archivio personale, Rizzoli editore, euro15), il suo punto di vista sulla carriera e sulla profonda passione per la musica che l’ha salvato e l’ha fatto diventare un rapper importante, senza però tacere nulla né del suo periodo da magliaro a Londra (con truffe e pacchi) o del suo buttarsi nella ristorazione dopo fallimenti e delusioni sentimentali. L’apoteosi è il lungo periodo di preparazione e costruzione per l’uscita di Potere, il suo ultimo cd, disco d’oro in quattro mesi nel 2018 e rieditato adesso in packaging con questo libro («dopo una session di registrazione, una notte d’amore, una rissa, un concerto. Come stai davvero, che cosa è successo davvero, lo capisci solo il giorno dopo») e tornato in classifica.

LOOK CAFONE, abiti chiassosi, tatuato, ingioiellato come una madonna votiva, Luchè racconta la sua ascesa disseminata di gelosie, litigi e incomprensioni con la scena musicale milanese e non solo (Capo Plaza, Achille Lauro, Dj Gruff), con i colleghi che lo accusano di essersi venduto per un brano come Gucci, Prada, Fendi, del contratto con la Universal e di tanti errori fatti ma pure dei compagni di viaggio, Uffo, Marracash, Enzo Avitabile, Guè Pequeno, Stefa Ebbasta, Fuossera, Franco Ricciardi e degli amici per la pelle D-Ross, CoCo, Star-T . Rievoca come sono nati i suoi ultimi dischi e le canzoni Je ce credevo, Stamm Fort, ‘O primmo ammore – inserito nella colonna sonora della serie Gomorra, e Il mio ricordo, tutto con una sensibilità esagerata, con una rabbia esplosiva che porta talvolta alla mitizzazione della vita di strada e delle armi in perfetta epopea gangsta, per quanto ammorbidita da una discreta autocoscienza.

«RICORDO un appartamento a Scampia, dove mi sono svegliato ogni mattina per tre anni con le urla dei tossicodipendenti che avevano appena comprato l’eroina nel complesso popolare Bakù, di fronte a casa mia. Ricordo l’esercito di centinaia di tossici che ogni giorno scendeva dai pullman che collegavano il centro di Napoli, la zona della Stazione Centrale e molte altre parti della città a Scampia. Ricordo le aiuole ai lati dei marciapiedi, dove in pieno giorno si aiutavano a farsi l’uno con l’altro, mentre i ragazzini camminavano verso casa di ritorno da scuola. Era tutto normale, gli studenti neanche ci facevano più caso. Per non parlare degli spari nella notte, delle lavatrici buttate giù dai balconi quando ci si opponeva alla polizia durante un arresto. Come fai a ignorare tutto questo? Anche se non vivi quella vita lì, sei comunque parte di quel dolore e devi solo farne il tuo punto di forza.»