Avrebbe compiuto 90 anni il prossimo gennaio Luca Maria Patella, ma se n’è andato l’altro ieri, venerdì 25 agosto, al policlinico Umberto I di Roma dove era ricoverato da qualche giorno. Da tempo non usciva più dalla sua casa di via Reggio Emilia dove abitava con sua moglie Rosa Foschi, anche lei artista, con cui ha condiviso 57 anni di vita. Artista visivo, incisore, fotografo, cineasta, videasta, creatore di oggetti (i vasi alchemici), di installazioni sonore (i famosi muri e alberi parlanti), di performance, autore di libri dove la parola poetica, il gioco linguistico, la riflessione critica e la citazione letteraria (Diderot e Dante) diventano tutt’uno creando formidabili architetture testuali-visive (Io sono qui. Avventure & Cultura, solo per citarne uno), Patella è sempre stato inclassificabile. Forse perché non ha fatto parte di movimenti neoavanguardistici, anche se il suo lavoro – a distanza di decenni – appare sempre più centrale per una rilettura degli anni ’60 -’70. Certe intuizioni come le terre animate (misurazione di campi effettuata da alcuni «soggetti indicativi») hanno anticipato la Land Art, mentre altre sue esperienze sono ascrivibili all’Arte Povera. Non è un caso che – pur con ritardo – tali affinità gli sono state riconosciute: basti vedere la mostra Reversing the Eye del 2022 al Jeu de Paume, attualmente visibile alla Triennale di Milano.

MULTIMEDIALE e intermediale fin dall’inizio, Patella ha esplorato le più diverse forme espressive con grande curiosità e libertà rivolgendo grande attenzione alla natura critico-ermeneutica del dispositivo. Per lui il concettualismo andava inventato attraverso media – come la fotografia o il video – che definiva «senza peso». Media utilizzati in sostituzione di un’arte segnica, impressionista o espressionista, ancora legata appunto al «peso» della tradizione ottocentesca. Un atteggiamento diventato vero e proprio manifesto di prassi teorica: distaccarsi dalla «sensazione» e dal «gusto», in favore di una «realtà mentale».
Ma Patella è stato uno degli ultimi alchimisti dell’arte. E in questo senso il suo amore verso Marcel Duchamp – ampiamente omaggiato nella sua opera – è dettato anche da un comune interesse per la scienza. Non dimentichiamo che negli anni ’50 Luca si era trasferito in Uruguay diventando assistente di Linus Pauling, doppio premio Nobel per la fisica e la chimica strutturale. In seguito va a Parigi dove frequenta la scuola di Hayter, un grande incisore che inventò la tecnica dei colori simultanei, separandoli su una lastra. «Quando sono ritornato a Roma – mi raccontò in una conversazione – ho applicato quella tecnica alla fotografia e ho cominciato a lavorare sui colori fotografici simultanei. Calvesi e Argan mi avevano dato le chiavi dei laboratori della Calcografia Nazionale e avevo la possibilità di rimanerci fino alle sei del mattino. Insomma alla fine lo avevo trasformato nello studio mio e di Rosa».

Gli interessi dell’artista spaziano anche in altri campi, come la psicologia e la psicanalisi. Conosce Lacan e Bernhard (l’analista junghiano di Fellini e Olivetti), mentre dal tardo freudiano Sullivan desume la nozione di «comportamento», che poi diventa di uso comune nell’arte contemporanea, ma che Patella utilizza forse per primo, ad esempio nell’episodio di SKMP2 (1968), forse il suo film più conosciuto in cui documenta creativamente il lavoro suo e degli amici della galleria l’Attico: Mattiacci, Kounellis e Pascali.
In quel periodo assai fertile, Patella crea le sfere animate o gli ambienti proiettivi animati, combinando insieme diapositive, testi scritti, azioni dal vivo e film (Piove!). In questi e altri lavori, oltre ai film, la parte concettuale-testuale è sostanziale e si esplicita anche mediante il lettering. Insomma un’estetica come esercizio di semiotica. «Mi divertivo a filmare sull’asfalto – ricordava sempre nella nostra chiacchierata – nei dintorni della Calcografia o nella zona del cosiddetto Tridente, scritte, insegne, giocando con i doppi sensi della lingua: nell’ambiente proiettivo a un certo punto compare la scritta ‘più trama’ nel senso di narrazione cinematografica ma anche di catturare, imprigionare. Nelle mie opere di allora prendevo in giro anche una serie di movimenti artistici che andavano di moda, come il Minimal, la Pop e l’Optical».
Patella è inoltre tra i primi artisti italiani a sperimentare anche con il videotape – pensiamo a Preghiere marziane (1970) o Grammatica dissolvente (1974): ancora oggi ci sarebbe da ritirare fuori e da restaurare diverse sue opere e materiali mai montati e/o non visibili da tempo.

QUESTO suo interesse è proseguito anche negli anni ’90 e 2000. Ma sono sicuramente i suoi film ad essere stati innovativi nel campo del cinema sperimentale e d’artista, film che – nel loro complesso – potrebbero essere letti come le tappe di un graduale passaggio dal sentire (e dal vedere) al fare; dal figurativo (Tre e basta, Manifesto-fanimesto) al comportamento (Intorno fuori, Terra animata), fino a una forma più complessa di «naturalismo attivo» dove la pseudo-narrazione si mescola con l’analisi psico-esistenziale (Vedo, vado!). Le opere di Patella – il cui archivio è stato di recente acquisito dal Maxxi di Roma – sono state esposte o acquisite da musei internazionali come lo Stedelijk di Amsterdam, il MOMA di New York, il Museo di Arte Contemporanea di San Paolo, il Palais de Beaux Arts di Bruxelles, il MOCA di Los Angeles e il MuHKA di Anversa. E siamo sicuri che, dopo la sua scomparsa, altri se ne aggiungeranno per celebrare l’arte di un grande sperimentatore.