Una partita di tennis e il racconto di tre esistenze. Ogni colpo è un frammento di vita, di amore, di occasioni perdute. Avanti e indietro nel tempo, col respiro di un movimento che fra le geometrie delle racchette e dei corpi sul campo intesse desiderio, erotismo, conflitto. Tashi Duncan (Zendaya), Patrick Zweig (Josh O’Connor), Art Donaldson (Mike Faist) portano il tennis in sé, qualcosa più che il sogno di essere campioni, la cartografia di sé stessi. Challengers è il nuovo film di Luca Guadagnino, rimasto impigliato nello sciopero di Hollywood – doveva essere l’apertura di Venezia 2023 – esce in sala il 24 aprile. Ne parliamo con Guadagnino a Roma. Allegro, elegante – con lui c’è per un attimo il bravissimo fashion designer Jonathan Anderson autore dei costumi – Luca Guadagnino ha sempre l’entusiasmo inarrestabile per il cinema di quando era un ragazzino ai primissimi film. E non si ferma mai. Ha già realizzato Queer, e sta lavorando a un progetto da Camere separate di Pier Vittorio Tondelli.

Hai scelto un campo da tennis come spazio del racconto. C’è un’attrazione antica fra tennis e cinema.

In realtà è stato Justin Kuritzkes, lo sceneggiatore a propormi il soggetto, l’idea del campo da tennis che racchiudeva i conflitti del gioco e quelli tra i personaggi è stata per me subito affascinante. È vero che il tennis ha una compattezza, una finitezza che permettono di fare esplodere le conflittualità. Così come il gioco in sé, il modo in cui è ritmato dai punti, tie-break, match point non è mai scontato o consequenziale, non è come nel calcio dove un gol dà un punto in più, a volte può succedere il contrario. La sua finitezza apre a infinite direzioni, per questo mi attrae: tutto diventa possibile.

A differenza di molti film qui il gioco determina il ritmo della narrazione. Avete anche mescolato modi di giocare diversi, di epoche diverse.

Mi sono affidato alla consulenza di Brad Gilbert che è stato l’allenatore di grandi campioni come Agassi. Insieme a Justin sono stati molto bravi a gestire la transizione tra un «A Beautiful Game» classico e la performance sportiva del contemporaneo. È una sfumatura impalpabile, ci abbiamo lavorato tanto per capire come usano i polsi, le racchette rispetto alla consapevolezza di cosa significa fare tennis con l’ambizione di superare se stessi. Per me è un passaggio che riguarda la frattura del contemporaneo, il classicismo, il postmoderno.

Anche le conversazioni fra i protagonisti riguardano quasi sempre il tennis ma alludono alle loro esistenze e emozioni.

È un gioco pure questo, una superficie ne nasconde o ne significa un’altra. Il tennis come metafora è il cuore del film, e esprime la libertà dei personaggi di poter provare ciò che sentono, di rimpiangerlo, di cercarlo ancora. Gli sportivi sono in qualche modo meno normativi forse perché devono piegare i loro corpi in maniera innaturale per essere eccezionali o credere di esserlo.

Cosa ti interessava provocare nel confronto con loro?

La repressione che ognuno mette in atto a suo modo. Patrick, il personaggio di Josh (O’Connor) vuole rimuovere l’appartenenza a una famiglia ricca illudendosi di essere ciò che non è. Tashi, quello di Zendaya, ha dovuto soffocare la propria ambizione e perciò disarticola se stessa per controllare il marito (Mike Faist) che a sua volta ha annullato i propri desideri per accontentarla. Fino al punto che il suo corpo di campione tra cicatrici e muscoli è diventato per lui una gabbia, un corpo represso, ma sa che se smette la perderà. Tutti e tre hanno bisogno di quell’ossigeno che provo a dargli con l’exploit finale – altrimenti sarebbe un film un po’ «fascio».

Che intendi?

Il cinema degli ultimi trent’anni è molto punitivo; ha spesso gestito la posizione dei suoi personaggi rispetto allo spettatore come un esempio di punizione che deve essere inflitta appena si osa uscire fuori dallo schema prestabilito. È un espressione di conservatorismo estremo. Senza citare dei titoli specifici, vedo un generale irrigidimento, e spero che Challengers possa contribuire a spezzarlo.

In qualche modo è una tensione che attraversa tutti i tuoi film, sia che ti confronti con «remake» («Suspiria») che con l’on the road cannibale di «Bones and All» i codici si aprono a nuove contaminazioni.

Ma il codice hollywoodiano è come il campo da tennis, o come il rettangolo che in sé è infinito: puoi mostrarci cose invisibili e farle affiorare. È chiaro che c’è anche un po’ di malinconia o di nostalgia per la libertà del cinema più sperimentale di quando ero agli inizi. Contemporaneamente le opportunità del codice sono tante e vanno esplorate. Accettare la sfida di stare dentro a una macchina che è produttiva, promozionale e quant’altro è molto stimolante.

Essere un po’ dentro e un po’ fuori insomma.

Pensa che avevo immaginato un film che volevo chiamare Dentro e fuori, da girare a Canicattì il paese di mio padre; era la storia d’amore tra un boss e un garzone della panetteria.

La tua Tashi è a suo modo una regista, il suo sguardo ha la capacità di erotizzare l’esistenza.

Vogliamo dire che Tashi Duncan c’est moi? (ride, ndr). Sicuramente lei domina i due ragazzi, loro la creano ma hanno bisogno di lei, di una «regista» che li faccia incontrare. Come tutti gli attori non sono in grado di dirigere le loro vite, sono giovinetti viziati, abitano insieme, sono un po’ fratelli, un po’ chissà. Poi appare lei, e vedono all’improvviso non tanto la ragazza da conquistare ma l’opportunità che può cambiargli la vita. E in effetti gliela cambierà per sempre.

Qualcosa dei tre ricorda «The Dreamers», e Bertolucci è un tuo regista amatissimo. Ma soprattutto c’è una grana sensuale nelle immagini che è molto rara adesso.

Più che The Dreamers per me è Il tè nel deserto. La sensualità oggi o è pornografia dei sessi, del corpo, degli ultracorpi o viene soffocata da una forma di imbarazzo. Per me non è una scelta teorica o programmatica, è un aspetto che viene naturale. Credo di essere molto novecentesco in questo. Le mie passioni sono i registi del ’900, Demme, in questo film anche Mike Nichols, Preston Sturges. I corpi degli attori devono avere una centralità. Quando abbiamo iniziato la lavorazione specie i due ragazzi erano scettici sulla mia richiesta di corpi atletici, avevano in mente i tennisti magri di un tempo. Dopo tre mesi si sono trasformati, e il compito della macchina da presa era di guardare questi corpi che si scontravano, si intrecciavano in una dimensione del desiderio che non è né solo sessuale né identitario ma pervasivo proprio nel suo essere continuamente dimenticato. In questo senso la macchina da presa doveva essere protagonista al massimo mentre il cinema contemporaneo non le permette di esprimere se stessa.

Gli incastri temporali e la fotografia sono essenziali.

Marco Costa, il montatore e Justin hanno fatto un lavoro magnifico fra scrittura e montaggio trovando una chiave ritmica precisa, che fa pensare al cinema classico hollywoodiano – che era anch’esso molto erotico. La luce è del maestro Sayonbhu Mukdeeprom, ogni dettaglio è frutto della sua intelligenza creativa che è piena di saggezza.

C’è anche un aspetto da rapporti di classe, Tashi non è dell’alta società come i due maschi.

Per questo pur ammirandola la giudicano. La società americana è molto classista, è vero che puoi diventare miliardario dal nulla ma cosa guadagni? Entri nel meccanismo di un capitalismo ultra liberista e crudele in cui i soldi di per sé non bastano per affermarti nella scala sociale. Nella mia esperienza è qualcosa di molto più sottile.

Hai già pronto un altro film, «Queer», e ne stai preparando uno da «Camere separate» di Tondelli.

Queer è un progetto che ho coltivato a lungo nella mia vita, ho letto il romanzo di Borroughs a 17 anni ma i diritti erano sempre opzionati. Poi l’anno scorso sul set di  Challengers l’ho fatto leggere a Justin. Lo ha amato, abbiamo chiesto di nuovo alla Fondazione Borroughs e erano liberi. Dopo una trattativa furiosa li abbiamo ottenuti in una settimana, Justin ha scritto il copione sul set di questo. Camere separate è un altro mio sogno, non è un film d’amore ma di lutto, Tondelli sembra fare i conti con tutto ciò che non si è stati in grado di compiere. È davvero doloroso.

C’è ancora un personaggio che dirige le esistenze.

È il suo problema, si rende infatti conto che la regia è un fallimento se la applichi alla vita.

La velocità del tuo fare dentro l’industria è piuttosto unica.

Ma è tutto molto fluido, ho sempre amato gestire le cose, organizzare e ho il privilegio di lavorare da anni con le stesse persone. È un incredibile piacere condividere questo con gli amici del cuore, crescere insieme e fare cose nuove. Quando dicono che a Hollywood perdi il controllo è una sciocchezza totale; lo perdi se dimostri che non ne hai se invece mostri di averlo lo mantieni e loro sono contenti. Ho mandato allo studio la dicitura «Luca Guadagnino’s Challengers» non c’è stata nemmeno la più lontana possibilità di discuterlo, riconoscono il punto di vista dell’autore e quello del produttore. Queste macchine in fondo sono piccole ma a me basta fare le cose bene. Mi piace anche scoprire con le storie gli attori nuovi; è lo spirito del tempo e io spero che sia qualcosa di duratur