Tre cerchi concentrici che si allargano, come quando un sasso cade in acqua, per raccontare chi è stato Luca Fregoso, scomparso un mese fa a nemmeno 64 anni, il giorno prima di Peter Lindbergh: uno dei fotografi di moda da lui tallonati (ma non il preferito).
Primo cerchio, privato. Con Luca ho condiviso le tappe della vita, dalle adunate di famiglia, bambini, sino alle settimane ultime in ospedale, al culmine di un’estate drammatica. Ci separava un breve, ininfluente, scarto di età e adesso che la morte ha spezzato (apparentemente) il filo, vado cercando come Montale, il ligure Montale, un fischio di riconoscimento per l’aldilà. Dopo che, più di trent’anni fa, avevo trasferito da La Spezia a Roma i miei Penati (un po’ anche suoi), il filo era soprattutto quello telefonico, con i confronti quasi quotidiani sulle edizioni di libri e cataloghi, i film, la politica; ma anche, verso l’ultimo, la crisi della stampa e delle riviste, il crollo di tante aspettative, e la vecchiaia prossima – amaro calice che, pare, non berremo insieme.
Secondo cerchio, «Alias». Chi realizza ogni settimana un giornale come il nostro, che in definitiva vuole essere una selezione possibilmente feroce («no, questo no!») di testi e di immagini, ha sempre nella testa qualche amico fidato a cui pensa in segreto mentre scrive o progetta: «cosa ne dirà Luca?», la cui profonda cultura iconografica di solito legittimava le nostre predilezioni moderniste. Egli era uno di questi lettori-tipo che danno figura reale a una parola abusata come target. Ci si confrontava sugli autori, si commentavano a distanza – ciascuno davanti al proprio Mac – le immagini da pubblicare. In occasione dei numeri speciali, quasi un ‘editor’ extra moenia, dava pareri, suggerimenti. L’ultima volta è stato per l’iniziativa sugli Oggetti d’affezione: l’edizione Einaudi di Man Ray, cui si ispirava l’iniziativa di «Alias», me l’aveva regalata per un compleanno di tanti anni fa.
Terzo cerchio, la professione e lo stile. Che tipo di artista è stato Luca Fregoso? Poiché non sono un critico ufficiale – e tantomeno uno storico – della fotografia, pescherò dalla scatola dei sentimenti, più che da quella degli attrezzi. Anzitutto egli è stato un invidiabile formalista, e tale si è sempre mantenuto nei vari campi dove ha lasciato il segno: la moda, l’arredamento e il design (lodatissima la serie delle ‘icone’ «Italian Heroes»), l’architettura (Mario Bellini, Renzo Piano, l’ex-Marzotto di Pisa, il Regio di Parma…), infine i ritratti. Per le nostre copertine fece, sempre a Parma, un memorabile Lavagetto domestico, e poi Gaetano Pesce performer alla Triennale, e Magistretti la cui foto, presa nel sobrio appartamento di via Gesù, divenne un vessillo gigante a Genova in occasione della mostra di Vico a Palazzo Ducale (2003). Per un libro-strenna sulle dimore storiche di Sarzana si lasciò guidare con ironia e ammirazione da González-Palacios come da un Virgilio. Mi mostrava spesso i lavori «di ricerca» sul corpo maschile (mise a nudo anche l’anziano papà, poeta dialettale): rimasti in gran parte inediti, celano ferree bibliografie non solo visuali, anche filosofiche.

Luca Fregoso durante l’allestimento di una mostra a La Spezia, nel 2014, foto Riccardo Pioli

 

Ma cosa vuol dire per un fotografo essere definito formalista? In primis che punta quasi esclusivamente sul linguaggio e sul suo funzionamento: a quali condizioni il pezzetto di realtà che sta di fronte all’obiettivo dovrà essere ritagliato dal continuum per trasformarsi in rappresentazione? Ancor prima di generare una cifra espressiva consapevole, e riconoscibile, l’attitudine formale di Luca era stata una scelta di campo anche politica, un fattore discriminante della sua formazione intellettuale (basta un nome: Roland Barthes). Questa sensibilità per l’ideologia delle forme – vogliamo chiamarla così? – aveva poi maturato nell’esercizio della professione un proprio correlativo morale, una sorta di «etica dell’immagine». È questo un secondo concetto interpretativo. Anche una foto può essere dotata (o non dotata) di lealtà, non tanto per il soggetto raffigurato (quello è solo contenuto), ma piuttosto a causa di quei coefficienti espressivi e tecnici che spesso sfuggono a un occhio poco allenato: come ad esempio i lenocinii ai quali molti ricorrono già durante lo scatto, per rendere più accattivante il risultato. Luca prediligeva le riprese con luce naturale, anche in interni. Quante volte, commentando libri di fotografi che vanno per la maggiore (ma non farò nomi), l’ho sentito deprecare il ricorso al flash sparato in faccia nei ritratti a giorno: forzare l’incarnato naturale, accenderlo così indistintamente, gli pareva una riprovevole affettazione (niente a che vedere col bicchiere di latte di Hitchcock).
Queste osservazioni acquistano ulteriore spessore in relazione alla cifra concettuale di alcuni suoi lavori più nascosti. Né, è bene precisare, le opportunità infinite di ritocco offerte dalla tecnologia digitale (la cosiddetta post-produzione) avevano allentato il rigore con cui allestiva un set ‘da cavalletto’ o indovinava l’inquadratura da Leica-al-collo.
Dopo l’apprendistato con Sergio (lo zio fotografo-educatore) su e giù per la città e per il Golfo à bout de souffle, i suoi primi incarichi furono al buio: lo spazio scenico e il dietro le quinte per le stagioni teatrali alla Spezia e a Genova. Luca era ancora un ragazzo quando il trentenne Enzo Ungari, astro della nuova critica tra cineclub e cantine, al quale Lizzani aveva affidato la sezione underground della ‘nuova’ Biennale Cinema del 1979, lo portò a Venezia per documentare il Festival, a fianco di Raymond Depardon. Doveva riprendere tutto, dall’installazione di una sagoma del leone alato di Milton Glaser ai protagonisti che arrivavano sul vaporetto: attori, registi, sceneggiatori, anche cantanti, scrittori, intellettuali. Non c’era tempo per pensare l’inquadratura, anzi occorreva sfilarsi dal nugolo dei reporter d’assalto inviati da giornali e agenzie. Le stampe di quegli scatti giovanili sono conservate in scatole arancioni Agfa e dopo quarant’anni, nonostante appaiano talvolta un po’ acerbi o non del tutto risolti sul piano formale, essi conservano una febbrile freschezza e il crudo disincanto dei Settanta. Vi si è impressa una specie di insonnia generazionale, la stessa dei cinéphiles che attendevano Fassbinder fasciato da una rete da pesca.