È bello Ludendo docet (2023), l’ultimo film di Luca Ferri, a partire dal titolo, che sembra un manifesto di poetica (e forse lo è). Si può davvero insegnare giocando? E se sì, cosa?
Il film si può intendere come un esperimento, introdotto da un prologo straniante e divertente che funziona bene nel caratterizzare, per contrasto, quello che viene dopo.

Il protagonista di Ludendo docet è un critico, Domenico Monetti, filmato in piano sequenza, che, in un teatro, mangia ostriche e beve vino, e mentre fa queste cose risponde a domande di cui non sa nulla, fornite da un’altra persona in scena. Sono domande di cinema e di natura personale. Monetti è libero di affrontare il discorso come vuole, ma a domanda nuova, la risposta vecchia si deve interrompere. Il tutto avviene per una durata concordata e con l’idea che l’azione debba svolgersi in una sola ripresa (nel film vediamo poi dei controcampi «ideali» di un pubblico, immagini aggiunte postume). Si tratta, in sostanza, di una «confessione», strutturata a priori con regole «meccaniche» in maniera tale da rendere superflua la stessa presenza di Ferri durante le riprese.

Il film procede quindi spedito nel suo farci ascoltare opinioni su diverse questioni. Monetti è un gran mattatore, capace di reggere lo schermo meglio di tanti «professionisti» di oggi – anche di ieri – e in grado di dare giuste «stoccate» su molti temi, con una sua ironia e senza salire in cattedra quando parla di autori (molto bello, per esempio, tutto il suo ragionamento che parte da João César Monteiro per toccare il cinema porno). Ma poi, alla fine, la realtà più violenta e fragile fa capolino nelle domande a sorpresa, costringendo chi parla a cambiare tono, a cambiare parole. Senza voler aggiungere nulla, possiamo dire che questo scarto – o stacco – arricchisce il film conferendogli una dimensione intima e universale, non scontata e per certi versi, oggi, rara.

A questo punto, torniamo alla domanda iniziale. È possibile insegnare giocando? Forse si, se il gioco è inteso essere quello di raccontare qualcosa di fronte a un ipotetico Altro (l’occhio digitale, gli spettatori di un teatro, noi che guardiamo il film di Ferri). Ma cosa ci insegna questo gioco? Che, nel raccontare qualcosa, non ci si può che mettere in gioco, come fa Monetti nel film. E Ferri attraverso di lui. È un modo per ricordarci che con il cinema, oltre che a «imparare a morire» (Montaigne), è ancora possibile imparare a vivere.