È un ossimoro, un pensiero che passa e si ferma creando angoscia. La guerra intorno alla Giordania ha portato a Petra la pace. Nella città scavata dentro la roccia tredici secoli fa dai Nabatei, regna il silenzio. L’oceano di turisti che fino all’altro ieri riversava le sue onde tra le chiese, i templi, il teatro romano, i mosaici bizantini, le tombe, si è quasi prosciugato. Pochi, se confrontati con il passato recente, gli stranieri che a piedi o a dorso d’asino camminano ipnotizzati dalla bellezza infinita di Petra, Patrimonio dell’Umanità. Petra è vuota, silenziosa, ma viva. Se attraversi il confine con la Siria, di Aleppo non restano che immense macerie di mattoni e di morti, il delirio assassino dell’Isis ha cancellato il tempio partico di Palmira e Bosra. Se il confine che passi è l’Iraq, le vittime mute dell’Isis si chiamano Mosul e il suo museo archeologico, la moschea e il mausoleo di Tal Afar; le città assire di Ninive, Hatra, Nimrud. In Libia sono la Chiesa Verde di Tikrit, VI secolo e gli edifici religiosi nei territori occupati. In Afghanistan, cinque anni fa, i talebani hanno polverizzato i Buddha di Bamyan; nel luglio del 2012 i fondamentalisti di Ansar Dine, in Mali, hanno deciso che Timbuctu doveva morire. Nel silenzio di Petra, in mezzo alle architetture incredibili costruite dall’uomo e dalla natura, a maggio, si è alzato il suono di una tromba, intorno a quel suono il canto corale di un’orchestra e il soffio eterno del vento. Petra, semplicemente, è il titolo del disco registrato lì da Luca Aquino e dalla Jordan National Orchestra. Nove brani, cinquanta minuti di musica per un disco che soltanto musica non è. Cosa rappresenti nella sua carriera, quale ne sia il significato al di là di quello artistico, lo racconta lo stesso Aquino, trombettista beneventano quarantenne con un ormai solido retroterra di album e concerti in Italia e in Europa. Il suo primo viaggio professionale in Giordania, il 25 febbraio del 2011, coincide con la Giornata della Collera, organizzata dal FAI, Fronte di Azione Islamica, emanazione dei Fratelli Musulmani, per chiedere al regno hashemita di Hussein la realizzazione di riforme mai attuate: «Suonai ad Amman insieme ai miei musicisti, e nei giorni a seguire visitai anche Petra. Rimasi folgorato dalla bellezza del posto, e soprattutto dal suo riverbero sonoro. I riverberi naturali mi appassionano. La maggior parte dei miei lavori sono stati registrati ed eseguiti nelle chiese, in un hammam di Skopje, nei cortili. Mi piace che il suono sia caratterizzato dall’ambiente e non viceversa. Il riverbero di Petra mi sembrò subito inimitabile come lei». Il secondo viaggio data al 2015, altro concerto la cui apertura vede sul palco la Jordan National Orchestra, ensemble multietnico composta da musicisti giordani, siriani, rumeni, armeni, polacchi, un percussionista di New Orleans. Dopo il concerto, Luca si incontra con Talal Abu Ghazaleh, esperto di diritto d’autore cui si devono quasi tutte le leggi in materia per il mondo arabo, e finanziatore dell’orchestra. Nasce l’idea di registrare un disco a Petra, impresa non riuscita a Luciano Pavarotti: «Un appoggio determinante è arrivato dall’Unesco, che dopo la distruzione dei Buddha in Afghanistan ha avviato la campagna Unite 4 Heritage contro i crimini dell’Isis e di tutti i fondamentalismi ai danni dei beni artistici e archeologici. Altrettanto determinanti sono stati i lavoratori di Petra. Alla loro associazione abbiamo deciso con Talal di devolvere tutti i profitti derivanti dalla vendita del disco, il primo dell’etichetta TAG, creata appositamente dallo stesso Talal».

Della cronaca di quei giorni, quali ricordi, quali momenti ti sono rimasti particolarmente impressi?

Ho realizzato il sogno di registrare la mia musica in un ambiente unico, dotato di un riverbero fantastico, e insieme ho fatto parte di un progetto sociale e culturale. Sul piano operativo, con l’arrangiatore dei miei brani, il flautista Sergio Casale, abbiamo selezionato alcuni elementi dell’Orchestra per costituire l’ensemble. Le difficoltà sono emerse durante le prove ad Amman. La grandezza della Jordan National è rappresentata dalle varie provenienze dei musicisti. Un musicista di viola armeno ha un suono differente da quello di un musicista di viola tedesco, ha una lettura diversa della stessa parte. Lo sforzo più impegnativo è consistito perciò nel calibrare il tutto. A Petra, i tecnici hanno avuto qualche problema con il vento, che, dal mio punto di vista, ha aggiunto molta magia».

Riusciresti a definire la sonorità dei monumenti e dell’ambiente e in che modo questa sonorità ha influito sulla voce della tua tromba, delle percussioni, delle corde, dei fiati?

Per me è un suono muschioso, ruvido, elegante, non invasivo, nel quale entrano anche le emozioni suscitate dal colore rosso caldo della roccia.

Adesso lo specifico del disco. Non è retorico o scontato affermare che, ascoltandoli nel massimo del silenzio urbano consentito, brani come l’assolo di Dead Sea Moon, la profondità delle atmosfere di Petra, i dialoghi degli strumenti in Beduin Blues, la morbidezza di Aqustico, restituiscono la dimensione fisica della città nella roccia, ma ancor più lo spaesamento che emana.

Ho cominciato a frequentare la tromba a vent’anni, dopo aver ascoltato tanto jazz. Poi nella mia vita musicale è entrato Jon Hassell (trombettista jazz di Memphis, considerato il padre dell’etno – elettronica, ndr) e ho capito che si poteva andare oltre il mainstream, e ho iniziato ad assorbire, un po’come una spugna, anche altri generi musicali. A che genere appartengo? Credo sia molto difficile, oggi, identificare una precisa specificità. Chi fa musica cerca di elaborare quello che ha dentro di sé. Puoi decidere di rifiutare una cosa perché sentirla, suonarla, eserciterebbe su di te un effetto negativo. Ma non puoi decidere il contrario. Molto, poi, dipende dagli incontri della vita. Nel mio caso ho avuto la fortuna di conoscere Hassell sul palco del Roccella Jazz. Mi disse ‘Stai andando bene’ e mi diede una pacca sulle spalle. Lo considerai, dal mio guru, un grande gesto di incoraggiamento. Vengo da jazz, ma guardo non di sfuggita a Brian Eno e al rock».

Tutti noi, di fronte alla quotidianità del fanatismo, ai conflitti che ha generato, alla paura che l’Isis è riuscito a far dilagare ben al di fuori dai confini del Vicino Oriente, sentiamo affievolirsi la speranza di un domani senza morte e terrore. Hai realizzato Petra perché confidi ancora in questa speranza, perché pensi che la musica possa servire?

Sono convinto che la musica sia veicolo importante del dialogo tra culture, che possa far sentire il suo messaggio di pace. E ne sono convinto al punto da aver proposto a Talal Abu Ghazaleh di tenere, con lo stesso ensemble, un concerto a Baghdad e negli altri Paesi dilaniati dalle guerre.

Se la traccia numero uno, Dead Sea Moon, avesse parole, sarebbero i versi de La gemma, della poetessa irachena Dunya Mikhail «Non è più sul fiume/ non è in città/non è sulla carta/ il ponte che era/il ponte che eravamo/abituati ad attraversare/il ponte/l’ha gettato nel fiume la guerra/come una signora/la sua gemma azzurra/ da sopra il Titanic».