Tra i capolavori inviati dalla casa madre per l’apertura del nuovo Louvre di Abu Dhabi c’è un magnifico Manet: è Il pifferaio, quell’immagine popolare che tutti conosciamo, specie di carta da gioco – come la chiamò ironicamente Honoré Daumier – che si accinge a diventare la deliziosa icona del nuovo millennio. Gli esperti in comunicazione preferiscono puntare sulla Belle Ferronière di Leonardo, la nuova Mona Lisa che il branding museale propina dopo aver avuto in concessione il prestigioso marchio francese per 30 anni e 6 mesi.
Importante però, nell’operazione «Louvre Abu Dhabi», è il movimento politico-finanziario che investe il trasloco dell’immaginario museale occidentale in una realtà progettuale che misuriamo in metri cubi di cemento costruiti sulle spiagge dell’isola degli emiri: 24mila mq di cui ottomila, solo il 25%, come superficie espositiva. Il budget previsto era di 83 milioni di euro, ma adesso – e dopo dieci anni di progetti e lavori – viaggia sui 600 milioni.

I FONDI per le acquisizioni (che ormai hanno sorpassato quelli del Louvre parigino) sono stato al centro di diverse polemiche e conflitti d’interesse. L’acquisto degli otto Twombly per il museo degli sceicchi, per fare un esempio, è avvenuto mentre l’anziano artista americano decorava «gratuitamente» il soffitto del museo in Francia.
Poche parole poi sono state spese sui problemi inerenti allo sfruttamento della manodopera, qui nel nuovo tempio firmato da Jean Nouvel. Oramai sono sedate le polemiche attorno alle condizioni di lavoro degli operai del sudest asiatico, impiegati nel completamento di questa faraonica impresa. Di fatto, il Louvre Abu Dhabi è rimasta l’unica realtà museale del territorio, non la meno dispendiosa, ma sempre meglio del fallimento dei progetti mediorientali di Guggenheim e British Museum.

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PARE COSÌ definitivamente spiaggiato quell’innocuo ragazzino in uniforme imperiale (il quadro di Manet) della guardia di Napoleone III e la scia di tetre immagini di morte lo trascinano su questa ultima spiaggia dell’intrattenimento. È lo stesso quadro che fu inviato in Unione Sovietica nel 1971 e nella Cina ipercapitalista, in tempi più recenti.

PER EVITARE scivoloni semantici sul piccolo Aylan (o su tutti i pifferai magici) fa sorridere pensare che persino Ai Wei Wei abbia installato un Tatlin bolscevico, rovesciato, che ricorda i lampadari in voga negli alberghi a queste latitudini. Una scelta in linea con l’idea di decorare con l’arte di tutte le epoche e culture, unico vero sforzo curatoriale per questo hub per capolavori malinconici, che si situa nella prospettiva dei nuovi musei sempre più identici agli storage blindati e tax-free dei collezionisti privati.
Il museo è una fontana di luce, niente di duchampiano ma qualcosa associabile al gesto «contestuale» dell’archistar Jean Nouvel che si proclama innocente e firma un duomo metallico.

È UN MUSEO-MEDINA, che combina l’ispirazione tradizionale araba, il design contemporaneo e le nuove tecnologie in grado di controllare la spesa energetica. Il sole filtra dalla cupola – 7850 stelle intrecciate geometricamente – e crea una pioggia di luce, evocando l’ombra delle palme nelle oasi. Un luogo che finirà per essere associato all’idea di lusso corrente e a un nuovo status per i capolavori: off-shore e blue-chip, come per la finanza.
In Francia, quando i conservatori del Louvre e buona parte delle vere forze produttive dietro alla potente macchina museale si misero in sciopero e osteggiarono il progetto del Louvre Abu Dhabi, questo ponte tra le culture che decollerà sabato, vennero subito esautorati, attraverso la creazione di un’agenzia ad hoc: l’Afm (Agence France-Muséums). Oggi alla sua testa è stato catapultato Marc Ladreit de Lacharrière, che tutti ricordiamo sull’onda dello scandalo Penelope che costò l’ultima presidenziale a François Fillon.
È al suono di questa musica ipnotica, molto simile a quella del Pifferaio di Hammelin, e in compagnia di una certa spudoratezza, che è stato organizzato l’atterraggio definitivo sull’isola di questa nuova morgana culturale.