Il luogo presso Napoli dove i classici collocavano l’ingresso all’oltretomba e l’inizio dell’inverno sono lo spazio e il tempo che nella ciclicità delle stagioni e dell’esistenza offrono a Louise Glück l’avvio per una delle sue opere più raffinate su mutazioni e passaggi: Averno, la decima raccolta della poetessa americana, uscita nel 2006 negli Stati Uniti, viene ora proposta da Libreria Dante & Descartes nella traduzione di Massimo Bacigalupo (con postfazione di José Vicente Quirante Rives, pp. 159, € 12,00). In apertura, l’immagine di migrazioni notturne di uccelli in un paesaggio inquieto e cupo, poi entra subito la voce narrante a dirci come il rapporto fra vita e morte, corpo e anima sarà centrale nel suo sommesso discorrere: «Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. // Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno (…) Allora cosa farà l’anima per rinfrancarsi?».

Basata sul mito di Persefone, la discesa agli inferi di Glück ricorre al recupero di un modello classico, motivo che torna nella sua scrittura fin dagli anni Settanta, per raccontare storie familiari e coniugali. Achille, Ulisse e Penelope, Didone e Enea, Orfeo e Euridice, e perfino Pia de’ Tolomei hanno via via offerto alla poetessa americana trame collaudate su cui innestare temi personali, una continua autoanalisi, il confronto con un amore finito, con la rottura del matrimonio, con il proprio Io lesionato.

Il ciclo di Persefone
Sotto le mentite spoglie del mito, si muove dunque sempre la voce poetante dell’autrice che rimugina sulla sua storia di figlia e madre, esce dal suo doppio e guarda con distacco agli esempi evocati dalla letteratura della tradizione e ai versi che sta componendo.

Con la seconda poesia, «Ottobre», Persefone ha concluso il suo ciclo terreno e sta per rientrare nell’Ade: sulla soglia fra i due mondi, ricorda il proprio destino di donna contesa fra la madre Demetra, che la reclama sulla terra, e il signore dell’Averno al quale deve far ritorno allo scadere della stagione: «Un’estate dopo l’altra è finita / balsamo dopo la violenza (…) balsamo dopo che le foglie sono ingiallite».

Nello sdoppiamento, risuona la voce della donna contemporanea, che ricorda la perdita della fanciullezza e allude a difficili vissuti: «Vieni da me, disse il mondo. Stavo ferma / nel mio cappotto di lana in una specie di portale luminoso / posso finalmente dire / molto tempo fa (…) la morte non può farmi male / più di quanto mi abbia fatto male tu, / amata vita mia». Anche alla Louise, ormai sessantenne, com’era all’epoca della pubblicazione di Averno, è riservata una parte della scena, quando ricorda come la poesia abbia curato le sue ferite: «Sono stata giovane qui. Prendevo / la metropolitana col mio libretto (…) non sei sola / diceva la poesia, / nel buio del tunnel».

Premio Pulitzer nel 1993, da oltre quarant’anni, Louise Glück occupa i vertici della poesia contemporanea americana, erede della tradizione lirica statunitense e maestra nel trasformare – come un altro grande poeta poco più anziano di lei, Charles Wright – vissuti soggettivi e aneddoti in una «metafisica del quotidiano».

Una questione di carne
In Averno, come negli altri suoi libri (fra cui il premiatissimo L’iris selvatico, uscito in Italia per Giano Editore sempre a cura di Bacigalupo) Glück si racconta in versi brevi dai toni ieratici, adottando la sua inconfondibile lingua vicina al parlato, ma esatta, risonante, talvolta ellittica. Travalica la dimensione dell’ordinario, cercando ossessivamente il quid dell’anima, che definisce un sé diviso dal corpo, un enigma, il riaffiorare dell’inconscio come «affascinante sconosciuto», una psiche frammentata, altrove «una bandiera issata / troppo in alto sull’asta».

In due poesie dedicate espressamente a Persefone, una all’inizio del libro e una in chiusura, la figura del mito viene rimodellata in quella di una ‘errante’ in continua metamorfosi: da archetipo a figlia, amante, moglie e donna in cerca di una sua autonomia. La sua storia, dicono i versi, va letta come una questione di «sola carne», un affare fra la madre, che la tiene a sé come una replica o un ramo del suo corpo, e l’amante che, sulla falsariga del mito, è «morte, marito, dio, sconosciuto».

Per lunghi anni in analisi, Glück riversa anche qui, in Averno, tracce di quella esperienza, passando senza preavviso dalla finzione mitica al vissuto soggettivo, mentre ci avverte che «i personaggi / non sono persone. / Sono aspetti di un dilemma o conflitto». In questi raffinati studi dell’anima, le parole si fanno riverberanti e l’andamento ellittico, così che ampi spazi si aprono al lettore, perché si disponga alla sua personale catabasi.