Cagna è il titolo che Perrone editore ha scelto per l’opera prima di Louise Chennevière (pp. 280, euro 18, traduzione di Francesco Leto), giovane scrittrice francese. L’originale riprende la similitudine del passaggio sadiano che l’autrice cita in esergo al suo testo «Come la cagna e la lupa la donna deve appartenere a chiunque la desideri», lasciando presagire pagine di compiaciuta filiazione alla filosofia nel boudoir. Tuttavia il presagio non si avvera e Comme une chienne non prende le mosse da La vita sessuale di Catherine M. di Catherine Millet ma piuttosto dall’esigenza di dirsi che si legge ne L’evento di Annie Ernaux.
L’opera di Louise Chennevière si presenta come un insieme di frammenti che compongono un romanzo che resta sgretolato ma che si tiene grazie alla coralità eccentrica delle voci femminili che lo cantano. L’io narrante si sminuzza per quel timore grande, antico, nato e rinsaldato dai divieti alla parola delle donne.

La difficoltà a prendere e a concedersi la parola si allenta con l’emergere di un «tu narrante» che aggirando l’auctoritas del soggetto tradizionale ed egemonico riesce a parlare e a rivolgersi alle altre e agli altri. «Non posso parlare a mio nome perché un nome non ce l’ho. Mentirei se dicessi io: quest’io, nero su bianco, su queste pagine, nel libro, non è casa mia. Eppure a lungo ti sei accomodata nella menzogna, e nella parola, prima di capire che quelle parole non ti appartenevano. A lungo hai detto io, come se fosse davvero possibile contare sulle tue sole forze, solo su quelle. Lo specchio s’è rotto e ti sei ridotta in frantumi». Prendendo parola, questo «tu» inscena una recita a più voci, che tramite un battibecco autoriflessivo si serve degli stilemi linguistici del monologo interiore.
Le tante voci dicono a turno le brutalità, che sono subite oppure esercitate perché apprese. Queste voci di età e classi sociali diverse infatti si riappropriano di quell’immaginario di violenza vissuta dalle donne attraverso le generazioni, entro quel perimetro di realtà esperienziale che le tiene insieme.

Esse raccontano le servitù volontarie e involontarie alla violenza maschilista e del modo in cui le donne abitano e sono abitate dalla ferocia patriarcale. Per sondare la profondità delle ferite inferte dalle umiliazioni sessuali e dallo sguardo libidinoso e mortifero dell’occhio misogino, l’autrice francese fa ricorso a un’esibizione che non ha nulla di esaltante, trattandosi infatti di una mostra che ha come tema l’organicità di corpi sofferenti.

Corpi che si scoprono rivelando il sangue che cola dalle piaghe – tanto sorelle a quelle descritte da Nelly Arcan o da Claire Castillon.
Attraverso una lucida esplorazione dell’inconscio collettivo Chennevière riesce a far emergere il fardello delle violenze introiettate dalle sue donne. L’ingiunzione al perfezionamento e all’autocontrollo, infine, martella a voler distruggere l’ingombro di quella «non desiderabilità» corporea che sarebbe propria della vecchiaia. Quello stato di inadeguatezza delle donne che «galleggiano», come dice Annie Ernaux, in un’invisibilità che rasenta «la sensazione di essere inconsistente, di non esistere».

La sua opera si direbbe politica senza volere essere militante. Ci vuole parlare del suo rapporto, in quanto donna e autrice, al femminismo?
Mi rendo conto che se fino a oggi ho posto così tanta enfasi nel distinguere una dimensione politica che la parola letteraria poteva avere da quella messa in pratica nel «reale», attraverso un militantismo radicale, è anche perché avevo paura che il mio testo fosse ridotto a nient’altro che il testo di una «donna», e non letteratura.
Certo, non c’era alcuna volontà politica dietro, non è un testo di denuncia, né un testo che cercherebbe di spiegare, provare o difendere. Non fornisce alcuna conoscenza, nessuna certezza; si tratta per me di portare nel regno dell’immaginario, del linguaggio, il corpo delle donne così come viene effettivamente vissuto. Di farlo apparire. Ma la potenza che possiamo trarre dallo scrivere un testo come questo, che è propriamente politico, è anche quella di capire che non siamo sole, che non riguarda solo noi questo dolore che proviamo, ma che è strutturale e strutturante.
È forse lo stesso tipo di potenza che si prova quando osiamo esporci collettivamente nello spazio pubblico, come durante la manifestazione notturna non mista per le strade di Parigi l’8 marzo scorso. È talmente potente riappropriarsi insieme di uno spazio che ci invisibilizza e che ci violenta. E farlo con una tale rabbia e gioia.

Nel suo romanzo il «tu» interindividuale prende parola al posto dell’«io» ma anche del «noi» collettivo che, da un punto di vista letterario, è così carico di aspettative. Quanto di desiderato e quanto d’inevitabile c’è in questa sua scelta?
Sì è vero, per me questo «tu» era inevitabile. È sia un «tu» che testimonia una reale frammentazione della soggettività, spezzata da questa violenza che la circonda, sia una strategia per poter parlare. È troppo difficile dire «io» quando esso è costituito da questa vergogna. Il «noi» troppo spesso è ridotto a essere il rovescio di un «voi donne», come se si trattasse di un gruppo omogeneo tenuto insieme da un’identità biologica, naturale.
Mi sembra che «tu» abbia grande forza d’interpellare, cosa che può anche essere vissuta da parte dei lettori, lo capisco, come una sorta di violenza, visto che alla fine dice: anche tu. Anche tu sei fatta così, riguarda anche te. Certo, capisco che vorremmo che non ci riguardasse affatto, non più.

Le voci del suo libro parlano spesso di madri e dei legami con le loro figlie. I loro corpi emergono come vettori fondanti la relazione materna. Può dirci in che senso?
Le relazioni madre-figlia sono strutturanti nel senso che sono uno dei luoghi in cui viene trasmesso ciò che sarebbe, ciò che dovrebbe essere la femminilità. Molto spesso sono le madri che insegnano alle figlie a comportarsi correttamente, che insegnano loro anche il silenzio.

In uno dei frammenti finali la voce narrante si definisce dea e madre terribile capace di giostrarsi, come la natura nuda e fertile, tra il dare la vita e la morte. Questo monologo interiore, così fortemente libero, come ha preso vita?
Fa parte dell’ultimo movimento del libro «A smarrirsi sono già più d’una». Il titolo di questo capitolo, come tutti gli altri, è un versetto della Bibbia che parla delle donne che si sono smarrite al seguito di Satana, che hanno intrapreso la strada della dannazione.
Se l’inizio del libro mette in scena donne che chiamo «spodestate», quelle che sono state ridotte al silenzio, alla vergogna, le donne che parlano alla fine del libro sono invece «possedute», donne pericolose che si sono riappropriate di questa violenza per capovolgerla.
Come per la parola «cagna» in fondo, che può essere assunta come una «fierezza», le donne alla fine del libro assumono e rivendicano la propria mostruosità non più come una vergogna ma come una potenza. In questo monologo, una donna delira per l’ambivalenza della maternità, che fondamentalmente conferisce alle donne un potere immenso, un potere che si ha sempre avuto bisogno di controllare. È una voce volutamente provocatoria, ma anche liberatoria e questa forza libera, anche il linguaggio che la trasporta, libera l’immaginario. È stato uno dei testi più gioiosi da scrivere.

Il rapporto al corpo femminile passa dall’«autocontrollo alimentare» a una sorta di disfacimento delle forme idealizzate in concomitanza alla vecchiaia. Come è riuscita a mimare con tanta maestria le stoccate mortifere dello sguardo patriarcale sui corpi delle donne?
Non so se ci sono riuscita. Immagino che ciò che lei chiama «stoccate mortifere» sappiamo tutte perfettamente bene, a vari livelli, di cosa si tratta. Penso che molte donne sarebbero abili quanto me nel descriverle se avessero il tempo, il diritto.
È in questo senso che ho l’impressione di non essere l’autrice di questo testo, perché non ho davvero scelto di scriverlo come quando ci si dice: «Ah beh, potrei scriverci sopra una storia, sarebbe un ottimo soggetto».
C’è qualcosa di viscerale, per me questo viscerale si può solo dire così, attraverso il gioco con la lingua, la sua sovversione. Non so se abbia a che fare con la maestria, con un talento particolare. Penso che si debba solo ascoltare molto il mondo. E lavorare, molto.