Dire Louis Garrel è dire Laetitia Casta, con cui s’è sposato cinque anni fa, facendo insieme un figlio l’anno scorso e due magnifici film, L’homme fidèle, nel 2018, e La croisade, uscito a Natale. Entrambi – ultime sceneggiature del grande Jean-Claude Carrière – sono proposti nella bella personale che a Louis Garrel dedica il Museo nazionale del cinema al Massimo di Torino, forse a risarcimento della tiepida programmazione (concorso e retrospettive) della trascorsa edizione del Tff.

Tra i dieci titoli (in versione originale con sottotitoli italiani) della personale appena conclusasi spiccano, accanto a quelli dove è solo attore (diretto dal padre Philippe o da Christophe Honoré, di cui è interprete-feticcio), i tre lungometraggi da lui diretti nell’arco di sei anni. Un’immersione nel piacere cinematografico.

Attore già a sei anni in un film del padre, Garrel è figlio-fratello-nipote d’arte: la madre Brigitte Sy attrice e regista, il nonno Maurice Garrel attore, la sorella minore Esther attrice e, in più, Jean-Pierre Léaud padrino. Nato il 14 giugno di 39 anni fa a Parigi, il «brun ténébreux», come lo descrivono i magazines francesi, ha conquistato cinema e attrici, partendo dall’Italia: diretto da Bernardo Bertolucci, con Eva Green, nel film che l’ha lanciato a vent’anni, Les Innocents/ The Dreamers, ha vissuto quattro anni con Valeria Bruni-Tedeschi (una bimba senegalese adottata, Oumy Bruni Garrel, e due film con lei: Actrices e il più modesto Un château en Italie). Dopo un flirt con l’iraniana Golshifteh Farahani (protagonista del suo primo film di regista, Les deux amis), nel 2015 incontra Laetitia Casta, reduce dalla lunga relazione con Stefano Accorsi, e la sposa il 10 giugno 2017 a Lumio nella Corsica natale di Laetitia, inaugurando una famiglia multipla: i due figli Orlando e Athéna del periodo-Accorsi, più Sahteene, nata nel 2001 dalla relazione con Stéphane Sednaoui, più la senegalese adottata nel 2009 e, infine, il piccolo Azel, frutto l’anno scorso del loro amore.

Sul tapis rouge con la moglie-musa di 42 anni allo scorso Festival di Cannes, per i film Bac Nord e La Croisade, divertente e illuminante fantasy sul destino del pianeta nelle mani dei bambini, l’attore, di cui sono usciti sprazzi di confidenze sul Quotidien e Madame Figaro, si apre al pubblico come aveva fatto a Che tempo che fa nell’aprile 2019.

Louis Garrel, al cinema ha vissuto il Maggio ’68 tre volte. Com’è andata?
La prima volta, con Bertolucci, in The Dreamers, è stato fantastico: perché il film è una versione immaginaria del ’68. Bernardo era all’epoca in Italia, impegnato nelle riprese di Partner: frustratissimo all’idea di non poter raggiungere Parigi. Per cui ha girato un film sensuale, tipo: che cosa ha provocato il ’68 nelle camere da letto?

I suoi successivi ’68?
Veramente buffo : tre volte sessantottino senza esserlo mai stato! La seconda volta è stata in un film di mio padre, Les Amants réguliers: è una versione più poetica, esistenzialistica. Con Michel Hazanavicius, in Il mio Godard (Le Redoutable) del 2017, mio terzo ’68, quel che mi ha interessato, più che l’epoca, è stato il mélange incredibile del film, il suo humour. Come ritrovarsi in una commedia all’italiana.

Hazanavicius, da Les Arcs dov’è stato presidente di giuria, lo avrebbe potuto incontrare in Italia dove era sceso per una masterclass con Bérénice Bejo al Museo del cinema di Torino…
Uno dei tanti incontri mancati. Anche Michel, come me, non ha conosciuto il ’68. E Jean-Luc Godard non era più uno studente. Come raccontarlo? Che cosa vuol dire essere engagé nel ’68 per uno come Godard, più anziano degli studenti in piena rivolta? E come essere in sincronia con loro, pur godendo ormai d’uno statuto forte nella società?

Risultato?
Soluzione fumettistica, che semplifica un po’ le cose: un modo divertente, pop, di evocare Godard, di citare i suoi film, la distanza dal medium, il collage. Il film è su un momento chiave di Godard, quando nel Maggio 68 si stacca dal cinema tradizionale e dalla narrazione, per realizzare cinema politico con il gruppo Dziga Vertov, a orientamento maoista. Le Redoutable è tratto da Un an après di Anne Wiazemsky, compagna di Godard all’epoca e sua attrice in La Chinoise, che nel 1967 anticipa la rivolta studentesca. Nel libro, grosso modo, si legge: «Sono stata la donna d’un immenso artista in crisi in un paese in crisi». Nel film, Hazanavicius fa, di una tragedia, una commedia.

Per lei che l’ha interpretato, chi è Godard?
Mi ha sempre affascinato: già come attore nei suoi propri film, tipo Soigne ta droite o Prénom Carmen. Non penso che gli piaccia recitare, ma, quando gli capita, lo fa in modo burlesco, non naturalistico: si vede bene che il suo idolo è Buster Keaton. E che carisma negli interventi mediatici! Ogni volta un happening, ovunque si trovi. Gran provocatore: mai d’accordo, mai convenzionale, sempre inaspettato: e divertentissimo.

Che aggiungerebbe su di lui al doc Arte «La Nouvelle Vague: une bande à part», appena presentato alla Cinémathèque de Paris?
È il Picasso del cinema. Vuol parlare di tutto, nei suoi film ha voluto far entrare il mondo intero. Ha girato quasi 150 film, corti inclusi, ha inventato il cinema moderno, ha immaginato un nuovo modo di far dialogare gli attori, con i suoi campi-controcampi e le risposte fuori posto.
Godard ha definito i film di finzione: documentari su attori che recitano.
E io ho affrontato il mestiere d’attore confortato dalla bella frase di Truffaut: «Un film è il documentario delle riprese».

Come si trova nella pelle dell’attore? Quali i suoi attori-modello?
A teatro, nessun problema: mi è sempre piaciuta la costruzione del personaggio. C’è chi mi ha messo nella «bande à Christophe» perché ho girato molti film di Honoré. Ma la volontà di divenire attore è passata per il teatro, che ho scoperto già da bambino accompagnando mia madre alla Comédie Française. L’idea d’una «troupe», come quella del Théâtre du Soleil d’Ariane Mnouchkine, mi ha sempre fatto sognare: riunirsi ogni sera per raccontare e migliorare ogni volta una storia. Mi piace osservare gli attori, Sean Penn, straordinario in Milk di Gus Van Sant, Philip Seymour Hoffman, Vincent Cassel… E Depardieu non smette d’affascinarmi, gargantuesco e, insieme, femminile. A ogni nuovo film, ci si chiede: com’è stavolta? Che voce avrà? Un caso da manuale.