Un Lotto riscoperto il titolo della mostra, aperta, all’interno della risistemata Accademia Carrara di Bergamo, fino al 26 febbraio. La «riscoperta» in questione, avvenuta nella città che ha ospitato grandi conoscitori del passato come Giovanni Morelli, Gustavo Frizzoni e Bernard Berenson, consisterebbe in una tarsia raffigurante la Creazione conservata nel Luogo Pio Colleoni, quasi identica a quella montata nel mirabile coro di Santa Maria Maggiore, nella stessa città, realizzata da Giovan Francesco Capoferri, nel 1523, su disegno di Lorenzo Lotto, a cui si deve anche la profilatura dei legni di diversa natura, giustapposti per rendere le varie superfici della composizione. Normalmente la tarsia del Luogo Pio era considerata una copia di Giacomo Caniana (1750-1802), un legnamaro di una famiglia di artigiani di Alzano, che a partire dal 1789 ha restaurato le tarsie di Santa Maria Maggiore, lasciando anche la sua firma nel 1801.

La pala di Celana

Intorno a questa «riscoperta» è stata allestita una piccola esposizione, con dipinti di Lotto soprattutto appartenenti alla Carrara, ma anche con alcune convocazioni illustri, come la pala di Celana del 1527, mossa solo per la mostra del 1953 a Venezia, le Nozze mistiche Barberini (un quadro ormai con le valige) e il ritratto Thyssen, che si tenta incomprensibilmente di far passare come un autoritratto (peraltro il dipinto non versa in buono stato di conservazione).

Il punto forte, lasciando perdere i video che rubano inutilmente la scena, sono però due pendant di collezione privata. Il primo è il San Pietro che piange, acquistato da Alfonso Orombelli nel 1942 a un celebre mercatino milanese, credendolo Dosso, e reso noto, tramite un dettaglio in bianco e nero, nel 1946, come autografo di Lotto, da Roberto Longhi nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (a colori si vedrà riprodotto nella versione tedesca del catalogo della mostra su Savoldo, 1990, sempre come Lotto). È un quadro fascinosissimo, nonostante le molte lacune, dove il tono visionario si combina all’utilizzo di diverse fonti luminose, pre-Rembrandt.

A questo, presentato come «Lorenzo Lotto (?)», è affiancato, con la stessa etichetta, il raro episodio di Giuda che restituisce i trenta denari. Il dipinto, che nella Fototeca Zeri è curiosamente archiviato come Lomazzo e provvisto di una misteriosa annotazione del grande conoscitore «vedi Lodi», è passato da Finarte – come Scuola ferrarese del XVI secolo – il 21 novembre 1996 (non 1997, come si dice nel catalogo). Illustra esattamente il momento successivo rispetto alla negazione di Pietro nel Vangelo di Matteo (nel capitolo 27, non 26, come si dice nel catalogo, dove anche l’iscrizione è riportata con i piedi).

La tela presenta problemi di conservazione diversi rispetto alla precedente, con ampie chiusure della superficie completamente abrasa.

Non si capisce perché, da una parte, mettere in dubbio l’attribuzione di Longhi al San Pietro e, dall’altra, avanzare una proposta quantomeno rischiosa per la tarsia della Creazione. Il San Pietro trova precise corrispondenze nell’ideazione da parte di Lotto di tarsie come La Maccabea, messa a punto tra il 1524 e il 1525, e, nonostante la rovina in cui versa, si trascina anche il Giuda, e le sue altrettanto significative analogie con tarsie come l’Ester e Assuero del 1527.

Nella Creazione invece non solo la finitura grafica e l’ossidazione sembrano indicare un’esecuzione che non dovrebbe rimontare a cinquecento anni fa. Si suggerisce, in catalogo, che la tarsia del Luogo Pio sia il pezzo presentato da Lotto e Capoferri alla Congregazione della Misericordia Maggiore per accaparrarsi la commissione del coro, quando invece la prova si ritiene comunemente che sia un’Annunciazione, riutilizzata poi nel coro stesso, secondo un principio non consumistico, ma di risparmio, proprio dell’antico regime. Seguendo lo stesso criterio del «non si butta via niente» Lotto interviene in una tarsia – Amasa ucciso da Joab – già realizzata da un altro artista.

Perché allora fare due scene uguali e non riadattare quella già fatta, visto il costo e l’impegno per realizzarla? Non aveva più senso, prima di spendersi in astruse elucubrazioni che occupano pagine e pagine in catalogo, interpellare, come prova del nove, gli esperti di settori affini quale l’intarsio del mobile neoclassico? Penso a Giuseppe Beretti, per esempio, che avrebbe potuto spiegare non tanto la compatibilità con i prodotti cinquecenteschi (una tarsia in legno è sempre una tarsia in legno, in tutte le epoche) quanto la pratica comune tra fine Settecento e primi Ottocento di realizzare tarsie alla rinascimentale (bastava andare in San Bartolomeo a Bergamo per vederne un esemplare) e avrebbe potuto fare notare come nella Creazione in questione si registri l’impiego di materiali in voga solo a partire dall’ultimo quarto del Settecento (in particolare il mogano rosso e cangiante, utilizzato per il leone, salvo smentite dei dendrologi).

La vera «riscoperta» nella mostra spetta invece a Stefano L’Occaso che mette in relazione un disegno della pinacoteca di Brera (sotto gli occhi di molti funzionari per anni) con la predella raffigurante l’Assunzione della Vergine conservata nello stesso museo, che sarebbe stato bello vedere a fianco del modello grafico: avrebbe scampato così il pericolo di rovinarsi, nel museo dove sta (ma qui la battuta è fin troppo facile).