La movida sui navigli, lo shopping in via del Corso, i balli nelle discoteche sarde, le feste in casa dei calciatori, i tifosi radunati in piazza Duomo. Nei mesi di pandemia queste scene, che si sono peraltro ripresentate in maniera simile in vari paesi, sono state viste, commentate, condannate o difese con grande frequenza sui giornali e in TV o sui profili social di tutti noi.

Non intendiamo qui prendere posizione in merito ai cosiddetti “assembramenti”: è tema per virologi e, al limite, per politici. Vorremmo invece riflettere sul ritorno d’interesse (se non una vera e propria ossessione) per la folla: un’etichetta in voga nella psicologia sociale tra Otto e Novecento per descrivere quanto gli esseri umani assembrati in gran numero potessero costituire una minaccia all’ordine sociale. Tra le molte riflessioni sul tema, le opere più note sono probabilmente La folla delinquente di Scipio Sighele (1891), La psicologia delle folle di Gustave Le Bon (sempre 1891) e L’opinione e la folla di Gabriel Tarde (1901).

I primi due libri si somigliavano a tal punto che gli autori si accusarono reciprocamente di plagio e, in breve, contenevano tre tesi fondamentali. La folla non è costituita dalla pura somma degli individui che ne fanno parte, dal momento che, scrive Le Bon, “gli individui che la compongono acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di trasformarsi in massa. Tale anima li fa sentire, pensare e agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe, agirebbe”.

E gli uomini in massa sono inevitabilmente peggiori, ancora con Le Bon: “Per il solo fatto di far parte di una folla, l’uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è un istintivo, per conseguenza un barbaro”. Inoltre, le folle sono in genere guidate da alcuni leader o conduttori, tra cui specie Sighele e poi Tarde individuano i giornalisti che sono in grado di instillare un’idea unica in un gruppo di persone. Infine, la folle si contagiano socialmente: quando questi studiosi parlavano di contagio ovviamente non intendevano quello virale che oggi tanto preoccupa, quanto piuttosto un “contagio mentale” che genera l’imitazione di comportamenti pericolosi tra gli individui che si trovano in gruppo. Sighele arriva a definirla una “fermentazione psicologica per contagio”.

Rileggendo questi studi, ampiamente criticati da buona parte della sociologia contemporanea, emergono alcune similitudini e altrettante differenze rispetto al discorso pubblico sulla folla. Tra le prime, c’è anzitutto la ripresa e l’attualizzazione di alcuni termini e concetti caratteristici della riflessione sulla nascente società di massa di oltre un secolo fa: la paura dell’essere umano che si riunisce in folla, la folla in sé come soggetto irrazionale non fosse altro perché luogo di decantazione del virus (e contrapposto alla razionalità dell’isolamento fisico), il timore che ci siano forme di contagio ma anche forme di imitazione di comportamenti ritenuti “scorretti”, la condanna dell’assembramento e quindi della vicinanza fisica come precondizione alla trasmissione del virus oggi così come delle idee in passato.

Una seconda similitudine è data dai luoghi in cui le folle si assembrano: sia per gli psicologi delle folle tra Otto e Novecento, sia per i media di oggi gli assembramenti di esseri umani si realizzano quasi esclusivamente nelle grandi città, nelle metropoli. Pare questa un’ulteriore eredità della sociologia di inizio Novecento e, in particolare, delle riflessioni di Georg Simmel sulle metropoli. Le metropoli sono luoghi in cui milioni di individui vivono in uno spazio limitato, in cui un’infinità di stimoli di varia natura porta le persone a vivere vite nervose più intense, dice Simmel. Il contagio sociale o fisico si realizza dove gli esseri umani vivono gomito a gomito e, non a caso, si assiste a un altro ritorno: l’esaltazione della vita in campagna, più salubre e con spazi più ampi rispetto ai ristretti appartamenti di città, che è un tema classico specie della letteratura e della sociologia americana dell’Ottocento.

A più di un secolo di distanza, ci sono naturalmente anche delle differenze tra le folle delinquenti di fine Ottocento e la folla delinquente in tempo di pandemia. Innanzitutto come abbiamo detto i media, e soprattutto i giornalisti, erano visti da Sighele e Tarde come potenziali “conduttori” delle folle. Parliamo di un’epoca in cui la stampa era vista anche come una minaccia all’equilibrio del sistema sociale, mentre oggi i media come stampa e televisione prendono una dovuta distanza dalla folla.

Anzi, sembrano addirittura seguire, osservare e giudicare negativamente il farsi e il disfarsi della folla nelle grandi città. Nel 1840, nelle prime pagine de “L’uomo della folla”, un racconto che è anche un vero e proprio testo sociologico, Edgar Allan Poe descriveva le fiumane di individui che scorrevano lungo le metropoli dalla prospettiva di un borghese. Il protagonista del racconto, un uomo cinico e giudicante, osservava il viavai della folla sorseggiando il suo caffè dalla vetrina di un bar del centro. Le fotografie, i resoconti e le riprese “live” delle folle che si radunano, o addirittura “prendono d’assalto” strade e negozi nei sabati di zona arancione ricordano il protagonista di Poe.

Come seduti dietro la vetrina di un caffè, i media osservano gli assembramenti per aggiornare continuamente il proprio pubblico sullo stato e i movimenti della folla. Un pubblico di follower nel vero senso della parola, che è anch’esso implicitamente seduto dietro una vetrina, o forse meglio dire uno schermo. Un pubblico che non prende e non può o non vuole prender parte alle vicende narrate e riportate dai media. Un pubblico che odia la folla perché veicolo di contagio, ma che attraverso i media ha l’opportunità di seguirla e di spiarla e, allo stesso tempo, di tenersi distante da essa.

Questa sorta di “feticismo della folla” proposto dai giornali, TV e siti web, che ha le sue ovvie ragioni di mercato ed è semplice da realizzare (basta una telecamera fissa), si differenzia dagli studi sulle folle di inizio Novecento perché rifiuta fondamentalmente la potenziale osmosi tra gli attori in gioco: da una parte la folla, dall’altra i media e gli individui informati. Da un lato un soggetto collettivo, non tanto più delinquente (le persone in via del Corso non violano esplicitamente la legge) quanto irresponsabile, dall’altro i media e il loro pubblico. Se Gabriel Tarde sosteneva a inizio Novecento che “l’età delle folle appartiene al passato e la società sta entrando nell’ ‘era dei pubblici’”, i due soggetti sembrano invece riemergere con forza oggi, senza però confondersi o avere punti di contatto.

C’è poi un’ultima differenza chiave tra le folle di ora e di allora, una differenza si potrebbe dire di scopo. Se le folle di un tempo facevano paura perché mettevano a repentaglio l’ordine pubblico (è chiaro nei testi di psicologia delle folle il riferimento alle proteste dei lavoratori o ai movimenti politici), le folle temute oggi si radunano, o si assembrano, per ragioni apparentemente triviali: per fare shopping, per festeggiare e cantare o ballare assieme, per fare una passeggiata.

Se un secolo fa le folle erano pericolose e delinquevano perché mettevano a repentaglio l’ordine e lo status quo sociale, le folle di oggi sono condannate in quanto folle e quindi non per i loro obiettivi espliciti, ma per il loro effetto epidemiologico. Non è nostro intento qui analizzare le ragioni dietro questo feticismo per la folla, anche se la concentrazione mediatica sulla “massa anonima” ha una sua chiara portata politica. Ciò che troviamo interessante è come un dibattito di più di un secolo fa possa riemergere nella società digitale e individualista di oggi. In “Nello sciame”, un libro apparso in Italia nel 2014 che ha fatto molto discutere, Byung-chul Han sostiene che le folle nell’età digitale siano state sostituite dagli sciami, da aggregati passeggeri di individui che non formano un noi, che non hanno un obiettivo comune se non quello dell’ottimizzazione del sé.

La presenza e la vivisezione delle folle nei mesi di pandemia ci dicono che probabilmente molte delle stesse persone che guardano il mondo attraverso uno schermo, quelli che abbiamo definito come pubblici, hanno anche bisogno di partecipare a riti collettivi che, nel bene o nel male, hanno fatto e faranno sempre parte del loro modo di vivere. Piuttosto che essere scomparsa o essere espressione estemporanea di una massa informe e anonima, la folla è ancora oggi espressione di un bisogno sociale particolarmente difficile da sradicare. Si tratta di un bisogno che con i media ha un’assonanza forse non del tutto casuale: il quotidiano. In particolare, il bisogno quotidiano di essere animali sociali, di condividere spazi e abitudini, di entrare in contatto, di sentirsi vicini.