Un tempo e uno spazio sospesi vibrano al centro, alle periferie, negli interstizi di ogni inquadratura di Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo. In un tempo e uno spazio sospesi e plurali è avvolta, circondata, «premuta» l’esistenza di Márta, la protagonista del secondo lungometraggio della cineasta ungherese Lili Horvát (che fu alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2020 e ora è uscito in sala). Che tutto sia e stia in bilico è espresso fin da subito, dalle prime immagini ancora nebulose, sgranate (il film è stato girato in 35mm), che mostrano la donna a letto accanto a un uomo più defilato. Perché è lei, con il suo corpo e la sua voce, il «primo piano» di tutta l’opera. Quell’immagine è (come) un flash senza coordinate spazio-temporali. E lo è l’immagine successiva, di un aereo in volo (che sappiamo viaggiare dagli Stati Uniti all’Ungheria), mentre la voce off di Márta comincia a raccontare i fatti, anzi il fatto che le ha sconvolto la vita e che rievoca nello studio di uno psichiatra – sedute inserite come intercalare in alcuni momenti del film per poi scomparire nella parte finale.
Ciò che ha sprofondato la quarantenne Márta – neurochirurga affermata che da diciannove anni vive e lavora negli Stati uniti – in uno stato di alterazione dove i confini tra realtà e immaginazione tendono a sfumare, in una magnifica e pericolosa ossessione d’amore, è stato il casuale incontro, durante un congresso in New Jersey, con il collega János, anch’egli ungherese, del quale si innamora follemente, e, soprattutto, la decisione di darsi un appuntamento (senza dirsi altro, senza scambiarsi numeri di telefono) a distanza di un mese sul Ponte della Libertà di Budapest. Un ri-trovarsi tanto preciso quanto aleatorio, come in un film di Richard Linklater. Che per Márta diventa «tutto». Lascia la stabilità raggiunta, torna a casa, ma il giorno tanto atteso cerca invano tra la folla sul luogo indicato il medico, che non compare e, in seguito, rintracciatolo nell’ospedale dove lavora (e dove lei si è fatta assumere scoprendo una sanità pubblica al collasso, in un nosocomio trasandato e affollato, dove si curano come si può i pazienti e dove la corruzione dilaga), le dice di non conoscerla. Márta non ci sta e inizia a pedinarlo. E se tutto stesse solo nella sua mente?

HORVÁT ha dichiarato di essersi ispirata per il personaggio di Márta (interpretato da Natasa Stork al suo primo ruolo da protagonista) a «donne guidate da grandi ossessioni», tra le quali memorabili figure protagoniste di alcuni dei capolavori della storia del cinema, ovvero Madeleine de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock e Adèle Hugo di Adele H. – Una storia d’amore di François Truffaut, oltre alle donne dei film di Krzysztof Kieslowski. La regista imprime ovunque un andamento ipnotico nel rappresentare una passione e una «idea» amorosa. Si tratta di essere presenti e al tempo stesso in fuga, di immaginare, credere, inventare, nel corso di «un periodo indefinito di tempo» e dei «preparativi» per affrontarlo. Fino all’ultima scena con Márta che osserva una gru issare dalla strada una cassa alla finestra dell’appartamento. Ancora un gesto di assoluta sospensione. Come sospesi, protesi verso un altrove, sono gli occhi di lei. In questo caso, in una strada della capitale e nei suoi dintorni. Il film di Horvát si fa così anche ritratto di una città, filmata in maniera appassionata e percorsa da una coppia di personaggi, vicini e distanti, colti in punti di svolta delle loro vite aperte – come tutte le vite che si mettono in gioco – agli imprevisti.