Un fascio di documenti nascosti all’interno dell’imbottitura di una poltrona, riemersi per caso a più di sessant’anni dagli avvenimenti che descrivevano. È così, con una storia degna di un romanzo giallo, che lo storico inglese Daniel Lee, specialista della Seconda guerra mondiale, si è imbattuto per la prima volta nel nome di Robert Griesinger. Cinque anni più tardi, dopo un’indagine che lo ha condotto da Stoccarda a New York, e che lui stesso racconta ora in un libro a un tempo affascinante e terribile dove il quadro storico emerge attraverso un deciso timbro narrativo – La poltrona della SS (Nottetempo, pp. 400, euro 20, traduzione di Fiorenza Conte), Lee è finalmente in grado di dare un volto e un profilo a quella figura.

Ci imbattiamo così nella biografia di un uomo, del tutto inedita persino alle figlie e ai parenti che lo storico inglese ha incontrato e ai cui scarni ricordi ha attinto, accanto alla consultazione di molti archivi, che ha attraversato l’intera vicenda del nazismo ma senza che di lui, delle sue scelte o delle sue responsabilità restasse alcuna traccia. Ad eccezione di quei documenti che all’indomani della liberazione di Praga nel maggio del 1945, prima di morire probabilmente di dissenteria in un ospedale della città ceca, lui stesso aveva nascosto in una poltrona.
Per più di mezzo secolo, dopo aver fatto parte delle confraternite nazionaliste all’Università di Tubinga, aderito alle Allgemeine SS, lavorato in qualità di Giurista per la Gestapo di Stoccarda e aver infine occupato un ruolo di primo piano nel Protettorato di Boemia e Moravia come delegato del Ministero del Lavoro del Terzo Reich, Robert Griesinger si era trasformato in uno dei tanti fantasmi della memoria tedesca.

Dai documenti lasciati da Griesinger non emerge il suo profilo di nazista fanatico, eppure è stato un ingranaggio efficiente di quella macchina di morte. Che idea si è fatto di lui?
Dopo essere venuto a conoscenza dei documenti nascosti nella poltrona, in un primo tempo ho pensato che si trattasse di qualcuno che non era stato coinvolto negli orrori della guerra e dell’Olocausto. Dopotutto il suo nome non compare in alcun testo storico. Poi, pian piano che mi addentravo nella sua storia, l’impegno di Griesinger in seno al nazismo, e in particolare il suo antisemitismo, sono emersi chiaramente. Alla fine si compone così il ritratto di un uomo, che come molti della sua generazione e del suo ceto, sono passati da un comportamento cortese e simpatico in società a dimostrare al momento opportuno tutta la loro astuzia e indifferenza verso gli altri, sia per convinzione che per tornaconto personale.

Lo storico inglese Daniel Lee

La sua traiettoria all’interno del Terzo Reich sembra contrassegnata anche dal desiderio di «fare carriera». Un tema, quest’ultimo, affrontato da Christian Ingrao nel suo saggio sulle professioni intellettuali all’interno delle SS («Credere, distruggere», Einaudi, 2012) che integra le riflessioni sull’adesione ideologica al progetto hitleriano.
In realtà Griesinger proveniva da ambienti sociali medio-alti, in particolare da una famiglia di militari che era stata legata alla corte del re del Württemberg fino al 1918. Tuttavia era ansioso di farsi un nome a Stoccarda anche al di là del ruolo della sua famiglia. Quando i nazisti arrivarono al potere, incarnarono da subito un’opzione attraente per chi come lui, cresciuto in un ambiente nazionalista, voleva mettere il più possibile a frutto i propri studi o esperienze, in questo caso una laurea in giurisprudenza. Perciò, non fu tra i primi ad iscriversi al partito, ma una volta instaurato il Terzo Reich scelse di entrare nella Allgemeine SS (le SS «generali»). Per uomini di estrazione borghese o medio-alta che disprezzavano la massa, aderire alla guardia d’élite delle SS rappresentava l’idea di appartenere alla parte che contava del Paese, al contrario della marmaglia di strada delle SA che aveva portato Hitler al potere. Quelli come Griesinger tendevano ad essere più istruiti dei vecchi combattenti che si erano uniti ai nazisti all’inizio. Si calcola che circa un terzo di loro fosse anche laureato. La sua fedeltà al regime e la sua preparazione professionale lo portarono così dapprima a lavorare come giurista per la Gestapo di Stoccarda e poi ad occuparsi della gestione del lavoro nella Praga occupata dai nazisti. In entrambi i casi prese decisioni terribili per le sorti di molte persone.

Fin dai tempi della scuola, dove aveva dei compagni di classe ebrei, per arrivare alla zona della Praga occupata dove abitò con la famiglia e dove sorgevano molte case strappate a chi era stato ucciso o deportato, Griesinger non sembra sia mai stato turbato dalla sorte cui erano destinate anche persone che aveva conosciuto o incontrato.
L’antisemitismo non fu introdotto dall’oggi al domani in Germania dopo la vittoria dei nazisti nel 1933. In questo Paese aveva già allora una lunga storia alle spalle. Nell’ambiente sociale e familiare di Griesinger era quasi un luogo comune quello di considerare gli ebrei moralmente degenerati e questo aiuta a spiegare perché in seguito non si sia certo preoccupato per il destino degli ebrei, anche di quelli che magari aveva conosciuto. I suoi genitori sostenevano il Partito Popolare Nazionale Tedesco, Dnvp, monarchico e intriso di nazionalismo e ideologia völkisch. Lui stesso da adolescente, negli anni Venti, si era unito alla gioventù di Bismarck, l’ala giovanile di quel partito. Ma sua madre, in un diario che ho avuto la fortuna di ritrovare, scriveva che fin da ragazzo il figlio aveva opinioni ancora più estremiste. Quando arrivò la guerra non aveva certo bisogno di convincersi che gli ebrei erano il nemico principale del popolo tedesco.

Arruolato nella Wehrmacht è infatti probabile che Griesinger abbia partecipato durante l’invasione della Russia agli eccidi perpetrati negli shtetl dell’Ucraina. Anche in questo la sua tragica «normalità» sembra confermarsi. Si comportò come tanti altri soldati tedeschi che diedero il loro zelante contributo allo sterminio?
Proprio così. Dopo la Seconda guerra mondiale si è attribuita la responsabilità degli omicidi di massa perpetrati ad Est agli Einsatzgruppen e ai Sonderkommando, formazioni create a quello scopo e che però arrivavano in città e villaggio dopo che era già passata di lì la Wehrmacht. Eppure nel dopoguerra la società tedesca ha coltivata a lungo l’idea che la Wehrmacht avesse combattuto esclusivamente contro l’Armata Rossa, ignorando i civili. Ma non è stato così, come indica tra i tanti proprio quello dell’unità dell’esercito in cui era inquadrato Griesinger. Del resto nelle stesse «Linee guida per il comportamento delle truppe» emesse dai vertici della Wehrmacht all’inizio dell’invasione, si poteva leggere come i soldati avessero l’autorità di sparare a «agitatori bolscevichi, guerriglieri, sabotatori ed ebrei». C’erano voluti solo pochi giorni perché, nel giugno del 1941 ad invasione appena iniziata, gli appartenenti all’unità di Griesinger si trasformassero da soldati ad agenti del terrore. Solo durante le poche ore trascorse a Rivne, come rappresaglia per l’uccisione di un ufficiale tedesco avvenuta nel quartiere ebraico della città, quei soldati hanno radunato e ucciso 150 ebrei e raso al suolo le loro case. E ne avrebbero uccisi ancora di più se non fosse arrivato l’ordine di spostarsi in un’altra località.

Da quei villaggi, dove all’epoca vivevano migliaia di ebrei, vengono anche i suoi parenti.
Nell’ultima settimana del luglio del 1941 l’unità di Griesinger attraversò il distretto di Tarashcha dove sorgevano una manciata di villaggi che includevano Stavyshche, il piccolo shtetl, immerso tra boschi e laghi, in cui è nato nel 1903 Israel Pougatch, il nonno di mia madre. Fortunatamente la sua famiglia fu tra le poche sopravvissute della zona e riuscì nel dopoguerra a raggiungere Londra dove sono nato io. Resta il fatto che ad un certo punto durante le ricerche per il libro ho capito che il destino della mia famiglia, e quindi anche il mio, sono passati molto vicino a quello dell’uomo su cui stavo indagando.

Lei non ha trovato nessuna foto in cui Griesinger si mostri con la divisa nera delle SS, né nei ricordi tramandati in famiglia risulta che l’abbia indossata normalmente, al di fuori di cerimonie particolari. Cosa significava all’epoca far parte delle «Allgemeine-SS»?
Le SS erano un organismo molto complicato e ramificato all’interno dello Stato nazista e sul quale, specie sui loro «quadri» intermedi, gli storici stanno ancora cercando di fare piena luce. A differenza delle guardie dei campi di concentramento, delle unità che partecipavano allo sterminio o a quelle combattenti – le SS-Totenkopfverbände, Einsatzgruppen o le Waffen-SS – le Allgemeine SS erano nate con il compito di garantire la sicurezza del Partito nazista e dei i suoi leader, a cominciare da Hitler, in occasione di raduni e manifestazioni. E al di fuori di questi momenti, o dei loro incontri settimanali, non erano tenuti a indossare la divisa. Svolgevano un’altra attività e poi nei weekend si riunivano, insieme alla loro famiglie, per ascoltare una conferenza, la lettura di un testo «classico» del nazismo o per momenti di festa tra canti e balli. Così, mentre svolgevano le loro diverse attività in seno al Terzo Reich, migliaia di uomini d’affari, insegnanti, medici, avvocati, giuristi, con le loro mogli e i loro figli, per certi versi l’ossatura della società tedesca dell’epoca, venivano formati costantemente nei «valori» e nelle idee dell’ideologia nazista.

Partita quasi per caso, la sua indagine invita a riflettere sull’articolazione delle forme del consenso al nazismo, come sulla diffusa partecipazione ai crimini che in suo nome furono perpetrati. Per quanto sia rimasto sconosciuto fino ad oggi, Robert Griesinger può rappresentare uno dei simboli di tutto ciò?
Senza dubbio. Ho sempre trovato sorprendente che nonostante l’enorme numero di persone che furono coinvolte negli orrori del nazismo, la maggior parte di noi conosce solo le vicende di pochi individui perlopiù appartenenti alla cerchia ristretta di Hitler. Invece credo che per capire davvero cosa rappresentò il Terzo Reich si debbano esaminare le traiettorie dei tanti «nazisti ordinari» di cui si è persa in seguito ogni traccia. Le cui vicende, come illustra il caso di Griesinger, gettano nuova luce sui diversi fattori che resero possibile l’ascesa del nazismo, il consenso di cui ha goduto e come tutto ciò si sia riverberato a lungo società tedesca. Dopo la guerra, il trauma del Terzo Reich fu avvolto da un silenzio opprimente che divenne abituale per diverse generazioni. La maggior parte dei genitori nascose anche ai figli il sostegno che aveva espresso al regime hitleriano e questo condizionò a lungo, e in parte almeno condiziona ancora oggi, le abitudini mentali di questi ultimi e la loro capacità di misurarsi con la propria storia e quella del loro Paese.