Il pubblico della sezione Panorama (lungometraggi) ha premiato Difret, il film etiope arrivato alla Berlinale con l’eco del Sundance dove è stato presentato in anteprima (ma molti titoli di questa sezione sono scelti al festival di Robert Redford) conquistando anche lì gli spettatori. Ma il film di Zeresenay Berhane Mehari, etiope che vive in America, è orchestrato per colpire il cuore, e lo si capisce sin dai titoli di testa sui quali campeggia il nome di Angelina Jolie che lo ha prodotto in accordo al suo impegno umanitario nel mondo. L’ispirazione è una «storia vera» accaduta in Etiopia nel 1996: una ragazza rapita e stuprata per obbligarla al matrimonio, come vuole la tradizione, è fuggita uccidendo il suo carnefice. Arrestata è stata salvata dalla condanna a morte da un’avvocatessa che combatte con la sua rete legale questa pratica terribile del potere patriarcale.

Nel film il personaggio si chiama Hirut (Tizita Hagere), studentessa di 14 anni che sogna di andare all’università. Ma come la sorella maggiore anche lei sarà vittima della «Telefa», il «rituale» del rapimento e del matrimonio forzato. Hirut però fugge e spara all’uomo che l’ha violentata. Sbattuta in prigione incontra Meaza, avvocato che combatte per i diritti civili. L’intento è appunto dei migliori, perché la violenza di un abuso come questo è intollerabile, e ancora di più visto che si legittima nella «cultura» della tradizione arcaica e identitaria. Il problema di film come Difret, chiusi nel compimento di una missione è che invece di sensibilizzare, nel loro schematismo retorico finiscono per accarezzare la commozione degli spettatori senza scuoterne le certezze. Da qualche parte del mondo è tutto orrendo, da qualche parte del mondo accadono cose atroci perciò ci indignamo e torniamo a casa contenti della nostra indignazione. È un po’ come il concetto degli «aiuti umanitari» (il film di Raoul Peck sull’argomento mostrato un paio di anni fa proprio alla Berlinale è risolutivo sul tema), che nel loro meccanismo stabiliscono una sorta di confortevole (e superiore) distanza decidendo che una serie di cose non ci riguardano (né ci toccano).

Chissà perché parlare dell’«altro» nei tanti film visti a Berlino non può accadere se non dentro una serie di «certezze comuni» che, per carità, sono «reali» (ma anche su questo un artista come Haroun Farocki ci mette in guardia), e lo ripeto da combattere, ma che da sole non possono diventare la sola garanzia di un immaginario. Non c’è in un film come Difret alcuna interrogazione/riflessione sul cinema, che è un’immagine consolatoria di paesaggio belli (e vagamente esotici), e primi piani che vogliono toccare l’emozione.

Fuori dalle sale, rimanendo in Etiopia, a poca distanza da Potsdamer Platz ( daadgalerie, Zimmerstrasse, 90 per chi capita a Berlino fino al 15 marzo) c’è The Return of the Axum Obelisk installazione di Theo Eshetu,artista expanded, cineasta etiope, nato a Londra, vissuto molti anni a Roma che da qualche tempo, come molti altri si è trasferito a Berlino. In Italia non è mai riuscito a organizzare una mostra – qui ce l’ha fatta dopo pochi mesi mi fa notare non senza un po’ di dispiacere. Certo. Anche i suoi progetti da noi sono stati spesso ostacolati, perché parlare di Etiopia, di massacri e di colonialismo italiano feroce è ancora vietato. Quanti sono gli studi sull’argomento Del Boca a parte? E il progetto sull’Obelisco di Axum trafugato da Mussolini e finalmente restituito agli etiopi dopo settant’anni era stato decisamente respinto quando proposto alla giunta capitolina dell’allora sindaco Alemanno.

Sui quindici monitor Eshetu narra la restituzione, gli operai etiopi e italiani che lavorano insieme e si congratulano reciprocamente quando l’Obelisco viene reinstallato. E la storia della Regina di Sheeba, che regnava nella regione di Axum, intrecciando così passato e presente nella dimensione del mito. L’Obelisco diviene uno spazio in cui interrogarsi sulla rappresentazione dell’altro, sul senso di «etnografia», sulla dimensione rituale dei confini che cambiano nel tempo. E sulla prospettiva di una Storia che muta secondo il punto di vista, e l’io narrante, che ne ripercorrono il movimento. La sua prospettiva è di una prima persona che se ne appropria reinventando un immaginario. Visivo, narrativo, del pensiero, che oppone resistenza in profondità alla patina dei luoghi comuni. L’altro che parla di sé ridefinendo i contorni della propria narrazione.

È qualcosa di estremamente pericoloso no? «Sarà per questo, dice oggi con amarezza, un regista come il palestinese Michel Khleifi non c’è più posto per le mie immagini». Troppo indocili, spiazzanti, nella generale regola del «girare bene» (ma cosa vuol dire poi?) senza disturbare troppo.

Gira bene secondo questa accezione Sudabeh Mortezai, giovane regista iraniana dell’ultimo film in concorso, Macondo, che ci conduce in un quartiere per immigrati, Macondo appunto, alla periferia di Vienna, dove vivono una giovane donna cecena e i suoi tre figli in attesa di ottenere l’asilo politico. Sono in fuga dalla guerra, dai massacri, dalla repressione dei russi come da quella dell’attuale dittatore ceceno, imposto da Putin per una forzata pacificazione sociale, che oggi, si dice, fa sempre più fatica a controllarne l’ascesa. Il marito è morto, non sapremo mai come, si intuisce coinvolto in qualche azione di guerra. Il figlio maggiore, Ramasan, vive l’assenza mitizzando la figura paterna che ricorda appena. Non sopporta le intrusioni di chi vorrebbe che la madre si risposasse, come il capo della moschea, e però è attratto da quell’uomo silenzioso che un giorno si è presentato a casa loro portando degli oggetti del padre – anche lui su di sè ha i segni della guerra, ha perduto le dita della mano …

Macondo è come chiamano il quartiere di Simmering, alla periferia di Vienna, un ghetto dove sono ammassati circa 3000 migranti in fuga da guerre e persecuzioni e in attesa di documenti d’asilo. Sudabeh Mortezai, iraniana che vive a Vienna, e ha realizzato diversi documentari, in questa sua prima opera di finzione supera i confini del genere mescolandoli nella scelta di attori non professionisti, e una dimensione del quotidiano «improvvisata». Macondo, molto distante dal luogo fantastico di Marquez, è uno spazio dei nostri tempi. Nel quale il ragazzino protagonista – il film è girato alla sua altezza – cresce come in romanzo di formazione imparando l’inutilità delle vendetta, e la necessità di seppellire i suoi fantasmi. L’Austria rimane fuori dal ghetto se non nelle figure di assistenti sociali, poliziotti, razzismo ordinario quotidiano. E nella architettura concentrazionaria che Mortezai sottolinea con le sue riprese, i corridoi stretti tutti uguali, le scale, le piccole porte delle case minuscole, quell’apartheid che si mette in atto tra gli stessi migranti. E la mistura di assistenzialismo e ostilità degli austriaci. Quello che manca è forse un po’ di libertà, un respiro imprevedibile in una tensione fin troppo controllata. Qualcosa che lasci filtrare la temperatura dell’emozione e il suo conflitto. A volte gli occhi dei bambini possono essere molto più imprevedibili.