Sul finire dello scorso anno si è celebrato il cinquantesimo anniversario di Arancia Meccanica. Per l’occasione Malcolm McDowell rievoca la pellicola che ha fatto la storia e lanciato la sua carriera, che annovera ormai ben oltre 100 film in 60 anni. Col lavoro che lo ha reso celebre McDowell conserva un rapporto complicato. Allora appena alla sua quinta prova, il ventottenne attore di Leeds subì durante le riprese alcune costole rotte e abrasioni alle cornee, procurate dai divaricatori di palpebre utilizzati nella scena della «riprogrammazione». Né sono nuovi da parte sua i racconti di un set capitanato con pugno di ferro da un regista a volte autoritario (con cui peraltro intrattenne anche un’intensa collaborazione nelle settimane di preparazione del film). È chiaro altresì che non sia del tutto corso buon sangue nella fase di post produzione e McDowell – oggi – 78 anni  non cela tuttora i dissapori sul compenso («Kubrick non ha mai finito di pagarmi nemmeno la manciata di centesimi che mi aveva promesso»). E tuttavia l’attore che oggi risiede in California con la famiglia (tre figli adolescenti) ha intrapreso un percorso di riconciliazione con un film cult, una pietra miliare del cinema e un classico che cinquant’anni dopo conserva la forza iconoclasta di una grande opera. Lo abbiamo incontrato via Zoom dalla sua casa di Ojai.

Lei e Stanley Kubrick abitavate entrambi a Londra – come ebbe quella parte?

Ricordo che mi disse: «Leggi il libro e chiamami». Io stavo lavorando ad un altro film, torno dal set e mi metto a leggere. Mi sono detto «Dio mio!». Era scritto in uno strano linguaggio e dovevo continuamente sfogliare al glossario per cercare di capire cosa stesse succedendo. Ho pensato «ma questo è impossibile da girare, chissà cosa ci vede?». Poi l’ho riletto e questa volta ero più abituato al linguaggio, sono riuscito a finirlo d’un fiato e ho capito che era una storia incredibile. Dopo la terza lettura l’ho chiamato e gli ho chiesto direttamente se voleva darmi la parte. È una cosa che non si fa, di solito si aspetta che sia l’agente a dirtelo, ma non sono riuscito a trattenermi.

Conosciamo la sua risposta. Dopo cosa avvenne?

Andavo a casa sua due o tre volte a settimana e ci passavo delle ore, semplicemente unendomi a qualunque cosa stesse facendo. A volte lo accompagnavo a fare sopralluoghi, oppure guardavamo film a casa. Di solito si faceva tardi e si cenava con take away cinese di un ristorante di Thornwood di cui lui andava matto. Facevamo di tutto tranne che parlare del personaggio – lui presumeva che ci sarei arrivato da solo. Una volta glielo chiesi direttamente e lui mi rispose: «Beh, è per questo che ti ho assunto», e se ne andò. All’inizio ci sono rimasto un pò male ma poi ho capito che mi aveva fatto dono di una grande libertà.

Aveva già capito che sarebbe stato un film cult?

Ovviamente no. Sapevo che non sarebbe stato semplicemente un film da un paio di festival. Dopotutto stavamo lavorando con un maestro, il regista di Orizzonti di gloria, Spartaco, Lolita, Dr. Stranamore. Era il regista di maggior successo in assoluto all’epoca. Nessuno riusciva come lui a girare film che erano audaci, artistici e commerciali al tempo stesso, forse solo Spielberg. Poi Kubrick era un soggetto unico, un produttore, regista, in parte sceneggiatore, uno straordinario tecnico del cinema con una profonda conoscenza del mestiere: gli obbiettivi, il suono, le luci, sapeva tutto. Lasciava però la recitazione agli attori.

C’era stato fino ad allora un ruolo fondamentale per la sua carriera?

Avevo lavorato con Lindsay Anderson che era un vero genio e un amico. Anche Stanley ovviamente era un grande regista ma Lindsay era un umanista, amava la condizione umana. Kubrick era più vicino alla satira, non amava molto la gente, o non si fidava di loro. Erano entrambi grandi artisti ma agli antipodi. Ho un debole per i film che ho girato con Anderson: Se…, O Lucky man, Britannia Hospital. Christiane, la vedova di Kubrick, mi ha raccontato che all’epoca lui aveva proiettato Se… a casa sua. E quando c’è stata la mia prima scena ha spinto l’interfono e ha chiesto che facessero un replay, l’ha riguardata quattro volte e poi, rivolto a Christiane ha detto: «Credo che abbiamo trovato il nostro Alex». Così mi ha scelto.

Qual è secondo lei il fascino del personaggio?

Credo sia soprattutto il suo atteggiamento anarchico ad attrarre. E poi il fatto che ami la musica classica, il suo amore un po’ paradossale per Beethoven. Il successo che ebbe comunque mi stupì. Ricordo un giorno che ero in macchina a Hammersmith e sotto la soprelevata, dove c`è una stazione della metropolitana, vedo uscire un gruppo di ragazzi tutti vestiti come il mio personaggio del film, che allora era nelle sale da un paio di settimane.

Quei costumi di Milena Canonero in effetti sono diventati iconici…

Dopo una di quelle sere passate a casa sua, Kubrick mi stava accompagnando alla mia auto e mi disse: «Secondo te Alex cosa indosserebbe? Ti viene in mente niente?». Io ero in jeans e maglietta ma in macchina avevo un’uniforme da cricket. «Mettitela un po’», mi fa. «Quello cos’è?» «È la conchiglia», gli spiegai, «il protettore inguinale». Lui allora mi disse: «Prova a metterlo all’esterno» e quella fu l’idea che generò il costume bianco. Le ciglia finte le avevo comprate per gioco in una boutique e le feci vedere a Stanley. Lui mi fece un sacco di foto. Provammo a metterle su un occhio solo e alla fine usammo quel look. L’ultimo tocco fu la bombetta che sfotteva abbastanza apertamente i businessman della City.

La musica è un altro elemento diventato di culto.

Chiaramente l’uso di Beethoven in quel modo non l’aveva pensato nessuno prima. Le elaborazioni elettroniche al sintetizzatore Moog fatte da Wendy Carlos – allora era ancora Walter Carlos – sono straordinarie. E poi Singin’ in the rain, un omaggio alla vecchia Hollywood: facendo quella specie di balletto e mi è venuto spontaneo di cantare quella canzone. Stanley saltò in macchina e tornammo di corsa a casa sua per comprare i diritti quello stesso giorno.

L’uscita del film provocò un putiferio, giusto?

Ci fu un tale polverone sulla violenza, era l’unica cosa di cui tutti volevano parlare. Oggi come allora a me sembra che la violenza più efferata passi ogni giorno nei telegiornali. Ovviamente il testo di Anthony Burgess è psicologicamente inquietante. Burgess ha scritto uno splendido romanzo e Kubrick lo ha splendidamente adattato. In definitiva credo sia merito del testo se il film continua ad avere successo oggi. Chiaramente la violenza per gli standard odierni è risibile ma credo che le nuove generazioni di pubblico colgano comunque l’ironia, la commedia dark ed il sottotesto politico.

In che senso?

Oltre all’impatto sociale che ebbe all’epoca, è stato per molti versi un film profetico. Io lo considero un film «rock», anzi direi punk, anche se non contiene musica di quel tipo. Non furono solo i ragazzi ad imitarne lo stile: quando qualche anno dopo incontrai Jean-Paul Gaultier ad un festival in Francia, mi disse che su Arancia Meccanica aveva basato un’intera collezione. Poi David Bowie o Madonna che hanno girato video vestiti come il mio personaggio, ha avuto un’influenza profonda sul costume. Oggi dopo 50 anni credo rimanga soprattutto l’avvertimento sui pericoli del Grande Fratello, l’erosione delle libertà da parte dei governi.

A proposito di politica, lei oggi abita in Usa, come vede la questione di un populismo aggressivo e tutt’altro che sopito?

Tutta questa faccenda di Trump fa paura, è molto pericolosa. È l’antica ricetta che mira al potere diffondendo la psicosi, insinuando il sospetto verso capri espiatori e minoranze, una strada del cui esito abbiamo avuto un ottimo esempio appena 70 anni fa. In più c’è il tentativo di controllare i media accusandoli. Posso solo sperare che si possa superare, che si possa respingere l’attacco concertato alla verità a cui stiamo assistendo. Non si tratta di essere tutti d’accordo ma i negazionismi sono pericolosi per come degradano il concetto stesso di realtà condivisa.