Critica d’arte, scrittrice, docente e, soprattutto, una personalità fuori dagli schemi e dai cliché. Tale era Francesca Alinovi (Parma, 1948) icona della irriverente scena New Wave, dimenticata, dopo la sua prematura morte, da un mondo dell’arte cauto e distratto. La sua drammatica fine, infatti, avvenuta nel 1983, fu un caso di femminicidio eclatante, che incuriosì tanto morbosamente la cronaca nera italiana degli anni Ottanta da schiacciarne il suo profilo intellettuale, vibrante e intenso. Ora, fortunatamente, un corposo libro, Francesca Alinovi a cura di Matteo Bergamini e Veronica Santi, (quest’ultima regista del documentario I am not alone anyway, 2017, a lei dedicato) viene editato da Postmedia books (pp. 320, euro 29). Il volume riunisce due tra i più famosi libri di Alinova (Arte Mia e Arte di frontiera) oramai introvabili e ne rivitalizza la figura densamente obliqua e profetica, riattivandone l’attitudine di catalizzatrice di eventi e individualità e di critica militante.

ALINOVI RAPPRESENTÒ, già alla sua epoca, un caso anomalo di sperimentazione critica e curatoriale, coraggiosamente e appassionatamente presente sul campo, laddove spostamenti e oscillazioni del pensiero inscrivevano nuove avventure culturali. Una «testa pensante» la sua, che declinava orizzonti personali, spesso ardui e prematuri per un côté artistico italiano chiuso. Dunque l’arte coniugata alla musica, alla moda, all’architettura e al design, a teatro e fumetti in un continuo susseguirsi di ramificazioni estreme che Alinovi trasmetteva ai suoi studenti del Dams di Bologna o nei suoi articoli su riviste di settore e nelle mostre curate. Eventi come «I Nuovi Nuovi», alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna (1980), «Italian Wave», New York, Holly Solomon Gallery (1980), «Una generazione post-moderna», Genova e Roma e, soprattutto, dal 1977 al 1982 nelle «Settimane Internazionali della Performance» alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, curate insieme a Renato Barilli, Roberto Daolio e Marilena Pasquali, in cui figuravano Marina Abramovic , Ulay, Hermann Nitsch, Luigi Ontani, Vito Acconci, Laurie Anderson e molti altri.

«Dal momento che la performance è la forma d’arte viva per eccellenza non poteva mancare di sposarsi con il suono, il materiale artistico più fluido, mobile e dinamico che si conosca. Sono finiti dunque i tempi in cui i rituali della performance venivano consumati in un clima di religioso silenzio e di vuoto pneumatico… L’arte dell’era elettronica, vale a dire quella dell’informazione e della conoscenza diffusa dei suoi abitanti circa la pluralità dei messaggi naviganti nell’etere, non può che essere polisensoriale, sinestetica, indefinitamente espansa», scriveva Alinovi.

LA SUA NATURA ESPLORATIVA e liminare la spronavano a declinare nuovi alfabeti e quell’«arte di frontiera» che profetizzò il fenomeno nascente del graffitismo americano o «slang del duemila» come lei lo definiva (Keith Haring, Rammellzee, e Kenny Scharf, A One) a cui si inchinò con passione e curiosità inusitata agli albori degli Ottanta.

Il libro appena editato è una raccolta dei suoi saggi, articoli, testi in catalogo, manifesti teorici, e confessioni che aiutano a riportare il soffio dei suoi pensieri insieme a riflessioni audaci «a suo rischio e pericolo» come il saggio pubblicato nel 1981. In Arte Mia prospettò, senza riserve e pregiudizi, il postmoderno: «Oggi si può fare tutto solo se si sa tutto, e se si sente di sentire tutto… L’Arte Mia è paradossalmente l’arte di identità fluttuanti e dissolte… L’Arte Mia è la forma d’arte postmoderna per eccellenza, perché possiede il grado massimo di intelligenze e di conoscenze e insieme di inconscio e di sensorialità».

Il suo era un pensiero discordante, così convinto dei propri azzardi che oggi non ha riscontro in un art system che ambisce all’uniformità piuttosto che alla differenza, fino a imbrigliarsi nelle maglie del consenso diffuso e istituzionale. Alinovi era dunque una soggettività adorabilmente anticonformista che si abbandonava all’empatia, al feeling e all’utopia. Impossibile oggi tessere la stessa empatia con artisti (sempre più interessati a trovare fondi per produrre) o con curatori d’assalto (indirizzati a trovare ruoli istituzionali). Questo libro rimane la sua singolare eredità e ci consegna il suo pensiero critico e avantgarde, sì da apparire perfino desueto e impertinente in questa sommessa epoca di conformismo.