La notizia è arrivata come un fulmine, alle undici di mattina, ora americana. È morto Jonathan Demme, a settantatré anni. Il regista di Il silenzio degli innocenti, Philadelphia e Stop Making Sense è stato ucciso da un cancro diagnosticatogli due anni fa, ma da cui sembrava essersi ripreso dopo un’operazione. Per la convalescenza dopo l’intervento, Demme aveva entusiasticamente accettato un invito in giuria al festival di Venezia (2015) perché, mi spiegò, «non c’è niente di più fortificante di una dieta a base di tre o quattro film al giorno».

Presidente della giuria Orizzonti, premiò due film difficili e molto belli, Childhood of a Leader e Free in Deed, che poi cercò di fare distribuire anche in Usa. L’ultima volta che ci siamo sentiti, quest’inverno, era per dirmi, tutto contento, che Free in Deed (per cui aveva organizzato una campagna di apparizioni/presentazioni personali insieme a Danny Glover) aveva vinto dei premi importanti agli Independent Spirits Awards.
Ma fare il tifo per il lavoro di altri, specialmente nel caso di giovani autori, era solo una delle infinite sfumature dell’amore di Jonathan per il cinema – che divorava avidamente, amava condividere con il pubblico (nelle retrospettive e nelle proiezioni speciali che organizzava per il Jacob Burns Center, a Pleasantville), di cui parlava ininterrottamente e che usava con trasporto, dolcezza e chiarezza enormi – sia per sognare, che spiegare il mondo.

Colorato, esuberante, limpido, denso di (com)passione e intelligenza, il cinema di Demme ha cantato l’America da 40 anni a questa parte. La sua è una melodia originalissima, in cui l’economia creativa studiata alla factory di Roger Corman si sposa alla dimensione critica della Nouvelle Vague, l’amore per Dreier a quello per Cottafavi, la «griglia» dei generi alla libertà del documentario. Autore istintivo (non a caso il suo rapporto forte con la musica), sensibile al dettaglio (dal minimo movimento sul volto di un attore a tutto ciò che anima lo sfondo di ogni inquadratura), Demme rifletteva nei suoi film un’idea del mondo aperta, curiosa, multiculturale, polifonica, «democratica». Valori oggi più da difendere che mai. In cui dall’incontro fortuito e fugace tra un addetto alle pompe di benzina e un vecchio scompigliato, a bordo di una moto, nasce qualcosa più prezioso di 156 milioni di dollari; uno yuppie ritrova se stesso abbandonandosi alla darkness di un’avventura fuori legge; e l’incontro/scontro tra un’agente Fbi e un serial killer cannibale può sfiorare l’abisso di una storia d’amore.

La sua visione politica e morale sempre lucidissima, ma tradotta nel tessuto del fotogramma con leggerezza, anche quando alle prese con il primo film da Studio a trattare seriamente l’Aids (realizzare Philadelphia era un diritto che si era guadagnato dopo l’Oscar per Il silenzio degli innocenti). Persino il suo incontestabile femminismo era giocato con humor, la grazia sexy di un corteggiamento. «Effortless», privo di sforzo apparente, è infatti una delle parole spesso usate per descrivere il suo approccio. «Generoso» è un’altra.

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Parte della generazione di autori cinefili che hanno rivoluzionato Hollywood negli anni settanta, dalle colte riletture dei generi che caratterizzano i suoi inizi (in particolare i cormaniani Femmine in gabbia e Crazy Mama), Jonathan Demme ha sviluppato un cinema profondamente ancorato ai personaggi, alle cui realtà –non importa quanto secondari essi siano (un’altra lezione della produzioni a basso budget) – contribuiva la cura di un miniaturista e un gioioso senso di meraviglia. Dalle carcerate di Femmine in gabbia, all’universo di provincia del magnifico Citizen’s Band, alla coppia Melvin Hummer/Howard Hughes, alla Lulu/Audrey di Qualcosa di travolgente, la vedova mafiosa di Una vedova allegra…ma non troppo, l’agente Clarice Starling, fino a Meryl Streep rockettara nel suo ultimo film di fiction, Dove eravamo rimasti, si tratta di una galleria ricchissima sullo sfondo di un paesaggio americano la cui esuberanza pop (Lil’ Abner e Russ Meyer, da cui Demme ereditò il caratterista Charles Napier) anticipa l’esplorazione postmodernista di Quentin Tarantino.

Questa devozione ai personaggi che ha spesso fatto paragonare Demme a Robert Altman (ringraziato non a caso in uno dei suoi film più recenti e più corali, Rachel sta per sposarsi) si ritrova altrettanto intensa nei documentari – il ritratto di un prete idealista in Mio cugino – il reverendo Bobby, quello di Jimmy Carter, Man From The Plains o della signora nella New Orleans devastata da Katrina, in I’m Carolyn Parker; e i due film su Haiti (isola amatissima, da cui è derivata anche una bella collezioni di quadri) – Haiti: Dreams of Democracy e The Agronomist.

Demme si muoveva infatti agilmente e con grande libertà tra produzioni da studio e indipendenti, fiction e documentario, il suo è un gusto per l’imprevisto, per lo scarto di tono o di genere impresso anche all’interno dei sui film. Con tre inquadrature, nella chiusa dell’episodio finale della seconda stagione di The Killing, Demme riscrisse tonalmente tutta la serie. Era una fluidità, la sua, che ricorda quella della musica alla quale, non a caso, ha dedicato alcuni dei suoi lavori più belli, a partire da Stop Making Sense.
È un documentario musicale anche l’ultimo lungo diretto da Jonathan, Justin Timberlake + The Tennessee Kids un tour de force in IMAX che non è solo un ritratto del talento di Timberlake «live», ma anche un omaggio alla macchina monumentale del grande concerto pop americano. La sua ultima regia, un episodio della serie Fox Shots Fired (un procedural a partire dall’uccisione di un bianco da parte di un poliziotto afroamericano) era previsto in onda ieri sera.