Volti serafici di faraoni e sguardi solenni di barbuti sovrani d’Assiria, un tempo chiamati a soggiogare i sudditi e a far da tramite con gli dèi, non smettono di interrogarci nei «templi» dell’archeologia universale, quali il British Museum e il Louvre. Eppure, i capolavori scultorei dell’antico Oriente – riportati alla luce durante le epiche esplorazioni archeologiche del XIX secolo e giunti in Europa come trofei della propaganda imperialista – sono stati a lungo vittime di un pregiudizio tutto occidentale che, impregnato di classicismo, vi scorgeva iconografie ripetitive e immutabili. Paradossalmente, alcuni critici britannici arrivarono persino a negarne il valore artistico. Se già nel I secolo a.C., Diodoro Siculo – influenzato dai viaggi di Erodoto – appare estasiato davanti alla grandiosità delle Piramidi egizie e per le smisurate dimensioni delle architetture babilonesi, ancora oggi è soprattutto l’incontro straniante con la monumentalità colossale a suscitare meraviglia e ammirazione in quanti si accostano alle sculture dell’Egitto e della Mesopotamia, ma anche dell’Anatolia, della Siria e dell’Iran. Nella percezione comune, le opere gigantesche si collocano in epoche buie, refrattarie al cambiamento, mentre quelle «a misura d’uomo» dei Greci e dei Romani sono immerse nel flusso della Storia. Da qui l’idea che l’arte del Vicino Oriente sia stata ossessivamente replicata per millenni.
Fino alla Valle dell’Indo
Anche il ritratto è considerato un genere che, fin dalla civiltà etrusca, ha attraversato la storia dell’espressione artistica del mondo occidentale sfiorando appena le remote società dell’Egitto e dell’Asia. Con il volume I volti del potere Alle origini del ritratto nell’arte dell’Oriente antico (Einaudi «Saggi», pp. XX-322, e 36,00), Paolo Matthiae intende smentire valutazioni che ritiene ingannevoli, in quanto forme di rappresentazione che si avvicinino al ritratto – concepite in relazione a meccanismi politici e di comunicazione visiva – sono documentate, con infinita varietà, lungo tre millenni di storia dell’Oriente mediterraneo e delle sponde del Levante, fino alla Valle dell’Indo. Consapevole che applicare gli strumenti critici elaborati in Occidente alle civiltà pre-classiche non sia privo di rischi, l’autore ambisce nondimeno a una sempre più avanzata storicizzazione di quest’ultime.
Il corposo e dettagliatissimo saggio, di grande profondità analitica e di assai impegnativa lettura (da segnalare anche l’accurato corredo fotografico), si apre con la figura del faraone-dio nell’animato scenario dell’Antico Regno che – negli ultimi secoli del IV millennio – vide contrapporsi, tra Medio e Alto Egitto, i signori di vari principati indipendenti. È in tale contesto che nasce la costruzione ideologica e teologica unitaria della regalità faraonica, la quale si esplica materialmente nella statuaria. Figlio di Ra, il dio solare «visibile» agli uomini per il suo raggiante viaggio diurno, il faraone incarna l’Assoluto. E fu proprio questa caratteristica a essere oggetto di ricerca da parte dei maestri delle dinastie menfite dell’Antico Regno, raggiungendo un equilibrio tra una visione astratta e idealizzata e una concreta resa fisionomica. Tale mediazione trova compimento nella statua di grandi dimensioni di Netjerykhet Djoser (2667-2648 a.C.), proveniente da Saqqara. Nell’impressionante testa, infatti, coesistono elementi iconografici divini di duratura fortuna, come il copricapo di stoffa nemes e la lunga barba posticcia, e una rappresentazione del viso che, attraverso zigomi prominenti, labbra carnose e occhi inseriti in profonde cavità orbitali, restituisce un’immagine di superba severità.
Il tentativo di armonizzare l’espressione dell’Assoluto insito nella concezione del re-dio e le sembianze particolari dei singoli sovrani, senza che un’esigenza sovrastasse l’altra, fu felicemente conseguito anche nella splendida testa di Djedefra (2566-2558 a.C.) da Abu Rawash, nella quale al nemes viene integrato l’urèo, complemento del disco solare dal «terrorizzante potere bruciante» del cobra, mentre la personalizzazione dell’immagine regale fu raggiunta per mezzo di una vivida tensione dei lineamenti, privi di convenzionalità. La divinità e l’umanità del faraone verranno potenziate dai maestri autori delle statue di Chefren (2258-2532 a.C.) e Micerino (2532-2503 a.C.), in cui la fisicità del re-dio – fuori del tempo e delle sue ferite così come dello spazio e dei suoi limiti – si accompagna a una più sensibile modulazione delle superfici. Straordinarie innovazioni artistiche si manifestarono all’epoca del faraone eretico Amenhotep IV/ Akhenaton (1352-1336 a.C.). Delle statue tebane e amarniane sopravvissute alla damnatio memoriae della nuova teologia solare, la figura del sovrano – benché rappresentata, nell’iconografia tradizionale, stante con le mani incrociate sul petto che impugnano le insegne reali – viene presentata con un gracile torso e un bacino dilatato avvolto nella šndyt, con sembianze così femminee da apparire a Champollion come un re «di grande morbidezza».
Gli artisti escono allo scoperto
È proprio nel periodo della XVIII dinastia che gli artisti escono allo scoperto. Ne conosciamo i nomi: da Bak al più noto Thutmose, nella cui casa-atelier ad Akhetaton sono stati ritrovati molti dei massimi capolavori dell’arte egizia di tutti i tempi. Fra essi, il celeberrimo busto dipinto della regina Nefertiti – icona dell’Ägyptisches Museum di Berlino –, che raffigura la sovrana negli anni della maturità in un ritratto, scrive Matthiae, «in cui il fascino di una splendente bellezza fisica intatta si coniuga con l’attrazione di una personalità come pervasa, più che da regale maestà, da umanissimi sentimenti di pensosa responsabilità e di assorta dignità».
Anche nell’area mesopotamica, la regalità è la somma istituzione che, per volontà divina, «discese dal cielo» (così la Lista Reale Sumerica, XXI secolo a.C.). Con la dinastia di Agade / Akkade, fondata dall’invincibile Sargon (2334-2278 a.C.), la ricerca volta a una resa naturalistica dell’immagine umana raggiunse risultati maturi e originali. Al leggendario condottiero è tradizionalmente attribuita una testa (forse eseguita al tempo di Manishtushu, 2269-2255 a.C.) rinvenuta nella cittadella di Quyunjiq, dove si trovava il Tempio di Emashmash dedicato alla dea Ishtar di Ninive. La scultura, mutilata negli occhi e nelle orecchie probabilmente a causa del sacco della capitale assira del 612 a.C., è caratterizzata da una capigliatura finemente lavorata con spessa treccia orizzontale, piccolo chignon prominente sulla nuca e riccioli verticali che scendono sul collo. Il viso presenta un naso aquilino, labbra carnose e un sontuoso trattamento della barba con tre settori sovrapposti di riccioli verticali. Molti secoli dopo, nell’Età del Ferro, il rinvenimento nel centro di Meliddu, che con Karkemish aveva condiviso l’eredità dell’impero hittita, di una statua monumentale di sovrano (forse Metallu di Kummukh, VIII a.C.) testimonia la somiglianza del volto regale, incorniciato da ciocche minuziosamente ondulate, con coevi rilievi dell’occidentale Sakçagözü. È ormai evidente che il tipo regale elaborato dalle botteghe neosiriane si collochi oltre la personalizzazione identitaria e fisionomica. L’immagine del re in Assiria, in Babilonia e in Persia seguirà d’ora in poi progressive schematizzazioni, lasciando che il messaggio politico traspaia da una rigorosa gestualità e dal riconoscimento dei simboli (le vesti, i gioielli, le armi) più che dei tratti somatici. L’idealizzazione del «signore del mondo» – come illustrato in maniera sublime dal rilievo con Sargon II e il principe ereditario Sennacherib dal Palazzo di Khorsabad – andrà di pari passo con un florido plasticismo per trasmettere, a imperitura memoria, la magnetica forza di entità supreme.