«Voi tutti conoscete la trama dell’Orestiade di Eschilo, la ripeto qui in poche parole, e dirò soltanto i fatti». Ci si trova subito dinnanzi a un primo contrasto, ne Le Eumenidi di Gipo Fasano, esordio tra i meno «allineati» del cinema italiano attuale, perché lo spettatore è costretto tra due reliquie del passato, remoto e prossimo. C’è la tragedia greca da un lato (il passato remoto) e gli appunti per l’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini dall’altro (il passato prossimo).

Entrambi momenti non più presente nel quotidiano, retaggi di mondi e orizzonti perduti. Si aggrappa a Pasolini, in un incipit rosso su sfondo nero, Fasano, e poi suddivide il suo primo lungometraggio – molto breve, in realtà, visto che si assesta di poco sopra l’ora di durata – ricorrendo alle fasi della tragedia greca: prologo, parodo, tre episodi scanditi a loro volta dai due stasimi, e l’esodo finale.
Può apparire un vezzo, alla stregua del ricorso alla voce registrata di Pasolini, ma così non è. Al contrario, queste scelte racchiudono al proprio interno la volontà di aggrapparsi al costone di roccia più impervio, tentando quella scalata all’immaginario che troppo spesso la produzione italiana ha dimenticato in un cantuccio. La produzione de Le Eumenidi, d’altro canto, ha ben poco della prassi contemporanea e sembra correre a sua volta indietro nel tempo: non è casuale che all’interno di questa notte disperata si scontrino umori che sembrano emergere dall’A mosca cieca scavoliniano (c’è anche una ripresa «rubata» allo Stadio Olimpico, quasi a suggerire un rimando ideale) o, per restare in tempi meno lontani, dalle opere di Davide Manuli.

La verità è che il cinema italiano, da chi lo produce fino a chi fruisce della visione, ha rimosso con gran cura tutto ciò che poteva risultare eversivo allo sguardo, ostico, scompaginato rispetto al ritmo e alla metrica dominanti. Così l’unico modo per scontrarsi con un film come Le Eumenidi è che due venticinquenni – questa l’età al momento dell’inizio delle riprese – armati di smartphone decidano di utilizzarli, nel cuore della notte romana, per rinovellare il racconto classico. Quand’è che l’Italia, così avvezza alla tragedia-farsa, si è dimenticata di mettere in scena la tragedia-classica? Ci vuole un bel coraggio a trasportare Eschilo dall’Attica agli attici dei Parioli, e a trasformare l’Areopago in quelle colline tufacee che raffigurano anche geograficamente, prima ancora che sotto il profilo socio-antropologico, la distanza della Roma bene dal resto della vita capitolina.

È questo che fanno Gipo Fasano, il regista, e Giorgio Gucci, il produttore – insieme hanno fondato Conteastudio, una piccola casa di produzione che trova ovviamente in questo film il primo tassello della propria storia –, tuffando il loro protagonista nella notte più nera, quella attraversata dai sensi di colpa per un crimine odioso che ha commesso, e del quale a renderci edotti non è l’immagine, ma il sunto pasoliniano già citato.

Come PPP prendeva la tragedia e la rivedeva alla luce delle lotte per la decolonizzazione dell’Africa, in un taccuino d’immagini in movimento, così Fasano compie un viaggio antropologico nel proprio mondo, una Parioli che ha forse bisogno a sua volta di una decolonizzazione, per tornare al nocciolo da cui si è generata. Non è dato conoscere il volto e il corpo integro del protagonista (che si chiama Valerio e non Oreste, ma dopotutto non è un attore a interpretarlo) da subito, e il regista lo scompone in dettagli che lo riprendono al lavoro in un ristorante: a venir meno è dunque proprio l’unità classica di luogo, tempo e azione. In verità Le Eumenidi svela l’impossibilità di ricondurre la tragedia greca nella Roma odierna senza smentirne molti precetti. I meccanismi sociali impediscono un giudizio collettivo sulla colpa, che può essere vissuta solo in forma individuale. Le erinni sono i demoni nella mente di Valerio, ma sono anche i suoi sodali che lo conducono in una baraonda notturna fatta di cocaina sniffata sullo schermo di un cellulare, di canti a squarciagola, di discoteche e di prosceni inimmaginabili («teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi, se tu ti proponessi di recitare te», cantavano i CCCP-Fedeli alla linea).

Come le stazioni della Via Crucis – che di nuovo spezza il tempo del racconto, riconducendolo a lacerti di un’esistenza cittadina svuotata di emozioni, indifferente al proprio svolgersi – il movimento nella notte morale e fisica di Valerio si traduce in una desacralizzazione del rito, fosse anche esso profano come la partita di calcio nello stadio. Sposando a uno sguardo inevitabilmente documentario (e dunque antropologico) il mito, e fingendo la realtà che è pure deflagrante ed evidente, Le Eumenidi si smarca dalla piattaforma condivisa dell’immaginario odierno per tentare traiettorie inusitate, giocando con il concetto di «virtuale» (il videogioco che apre nei fatti la narrazione), corroborando la nudità così estrema e pittorica dell’immagine nel bianco e nero disegnato con l’iPhone da Domenico Boscovich con bombardamenti pop – Renato Zero, Gabriella Ferri, Gianna Nannini, Loredana Bertè che canta Enrico Ruggeri, ma a suo modo perfino La Traviata, che trova una collocazione ideale, allo stesso tempo simbolica e di senso –, suggerendo ai più disattenti come il colore esista anche nell’assenza di colore, pulsi sotto la superficie dell’immagine stessa.

Fasano riesce a tracciare una catabasi che è allo stesso tempo anche parabasi, e che riannoda i fili di una società slabbrata, forse perduta, ma che può essere ancora al di là di tutto alla ricerca di se stessa. «Voi tutti conoscete la trama dell’Orestiade di Eschilo», suggerisce Pasolini prima che il film stesso inizi: un’utopia oggi, pensare che quella trama sia ancora così condivisa dalla collettività. Un’utopia che è forse la stessa de Le Eumenidi, che trova malgré lui ospitalità alla Festa del Cinema di Roma, l’evento che sotto il monte Parioli vive, e che tende a promuovere il ludico. Un paradosso affascinante.