La tragica vicenda di Milano ha coinvolto simbolicamente tre figure processuali. Forse avremmo il dovere tutti di partire proprio dalla terza, che invece è la più negletta, quella dell’imputato: unico a non avere una veste professionale ma solo quella di privato cittadino. In pratica uno di noi.
Lorenzo Claris Appiani invece era un avvocato, ossia uno che come me e come molti avvocati frequentava i tribunali per lavoro, ma non è questo il fattore di rischio della nostra professione. Non voglio inserirmi nella gara alla vittima «più uguale» delle altre, che francamene mi deprime, piuttosto è utile conoscere il ruolo dell’avvocato per capire di cosa è veramente rimasto vittima il povero Lorenzo, se della banale mancanza di un metal detector o di qualcosa di più complesso.
Si usa dire che il «giudice è solo», definendo con questa immagine la sua terzietà che lo obbliga a dare ragione ad una parte e torto all’altra. Lo stesso non si può dire dell’avvocato, il quale non è mai solo, avendo sempre al fianco un cittadino che pretende di esercitare un proprio diritto. E spesso rimane deluso. E quando accade è facile intuire chi sarà bersaglio della sua insoddisfazione per la, vera o presunta, denegata giustizia.
Per il cliente l’avvocato incarna la giustizia. Prima di arrivare davanti ad un magistrato è lui che vede, e se la giustizia non funziona (perché non gli dà ragione) il suo risentimento si dirige per primo contro il suo difensore. Questo è l’istinto, s’intende, per fortuna stemperato quasi sempre dalla ragione, ma essere avvocato significa capire quando il risentimento raggiunge livelli di guardia e fa venir meno la fiducia. Cosicché il rapporto si rompe, a volte malamente, e nel trauma si collocano i tragici eventi come l’uccisione di Lorenzo Claris Appiani, così come in passato fu per Eligio Gualdoni, altro martire dell’avvocatura, cui è intestata una sala del Palazzo di Giustizia di Milano.
La madre del giovane Lorenzo, nell’assemblea di commemorazione delle vittime, ha ricordato con parole toccanti la formula di giuramento degli avvocati che il figlio usava ripetere trovandola perfetta per una professione che amava e senza la quale, diceva, non può esistere uno Stato ed una convivenza civile. Parole di madre, certo, eppure è tutto vero. Il «servizio» giustizia non inizia e non finisce con il processo, comincia prima, dentro uno studio professionale: e già lì l’avvocato inizia la sua faticosa attività di mediazione tra il suo assistito e il resto del mondo, che sia lo Stato o un altro cittadino come lui. Il rischio della professione, dunque, ha ambiti territoriali ben più ampi di un tribunale, ma quando si concretizza lì dentro assume un forte valore simbolico.
Nel caso di Lorenzo Claris Appiani la simbologia raddoppia, in quanto lui si trovava in tribunale non per lavoro ma come un normale cittadino che viene chiamato a testimoniare. Chiamato dal difensore dell’imputato, dunque paradossalmente a difesa di chi ancora covava il trauma della rottura e per questo voleva ucciderlo. Doppiamente vittima, dunque, Lorenzo: come avvocato, vittima del rischio professionale, come cittadino, vittima del dovere civico di testimonianza. Insomma, a tutti gli effetti uno di noi.