L’uscita del suo nuovo album e il ritorno in Italia — domani a Brescia e il 21 a Padova – poi di nuovo a fine luglio — sono l’occasione ideale per una conversazione con l’artista che, assieme a Enya, ha maggiormente legato il suo nome a quella corrente new age di ispirazione celtica che tanto successo ha avuto tra anni Ottanta e Novanta. Inciso dal vivo durante quattro serate nel sud dell’Ontario, The Road Back Home (Quinlan Road) esprime sin dal titolo la consueta idea del ritorno alle origini, scavalcando l’epoca new age per rimettere mano al repertorio tradizionale che aveva sancito l’ingresso di Loreena McKennitt sulla scena. «Tutto è iniziato in una piccola falegnameria a Winnipeg. È lì che nei primi anni Settanta ho incontrato un gruppo di appassionati, alcuni dei quali provenienti da Inghilterra e Irlanda, che ogni domenica sera organizzavano session di musica tradizionale e si scambiavano i dischi di artisti come Maddy Prior, Alan Stivell, la Bothy Band e i Planxty. Di recente ho sentito il bisogno di tornare a quel tempo, avendo avuto la fortuna di incontrare un gruppo locale con cui condividere questa passione».

SI FA PRESTO a capire che il concetto di tradizione è tutt’uno con quello di casa, tema portante del disco: «Ho iniziato a ripensarci nel 2006, mentre stavo registrando An Ancient Muse, giungendo alla conclusione che “casa” è molto più del posto in cui dormi, ma piuttosto un insieme di tradizioni, rituali, piccole abitudini della tua vita. Soprattutto è qualcosa che ha a che fare con le relazioni umane: sono loro a forgiare il tuo senso di casa». Abitudini e rituali semplici, come «svegliarsi alle sette e fare colazione con quattro amici ogni mattina: anche questo è parte del mio concetto di casa, ed è legato allo stesso tipo di relazioni umane che è alla base della mia passione per questa tradizione musicale».
Una tradizione — soprattutto quella irlandese — ramificata in due macroforme, canzoni e danze strumentali; pur interessandosi a entrambi i filoni, la McKennitt è evidentemente più legata all’espressione delle ballad, delle quali apprezza in particolare le connotazioni storiche: «Non appena mi sono immersa in questa musica ho capito che, per apprezzarla pienamente, era necessario comprendere il contesto sociologico e politico all’interno del quale si era diffusa. Cosa facevano le persone, prima della radio e della tv? Probabilmente si intrattenevano raccontandosi episodi del passato, in modo che attraverso questa tradizione orale anche la popolazione non alfabetizzata potesse conoscere la propria storia». Si tratta di circostanze che accomunano i popoli nordeuropei con gli indigeni canadesi e con «le tradizioni orali degli Inuit, grazie alle quali per esempio abbiamo saputo che la nave di Franklin [il capitano inglese partito nel 1845 per attraversare l’ultimo tratto del passaggio a nord-ovest, nda] era affondata a nord del Canada».

La new age di ispirazione celtica, le macroforme della tradizione

LA RIFLESSIONE su ciò che maggiormente riguarda le comunità alla base di queste tradizioni musicali trova nell’ultimo album un esempio da manuale in Bonny Portmore, risalente al diciannovesimo secolo: «A quel tempo in Irlanda ci fu una massiccia deforestazione causata dall’ingente richiesta di legname per la costruzione delle navi, necessarie per l’espansione dell’impero britannico. E lo stesso accadeva qui in Canada, in Ontario, dove c’era ancor più materia prima, che veniva trasportata attraverso l’Atlantico fino all’Inghilterra. Bonny Portmore non è soltanto l’immagine pittoresca di questo grande albero, ma si riferisce proprio a questa storia e anche alla consapevolezza ambientalista di quelle comunità, un tratto che le avvicina alla nostra sensibilità contemporanea. Quello che cerco di fare è proprio trovare canzoni storiche che abbiano rilevanza nel presente».
Altri brani, in particolare Mary And The Soldier e As I Roved Out, mi suonano come dei classici per via delle versioni — anch’esse storiche — incise da Andy Irvine nella seconda metà degli anni Settanta. Alla domanda su come sia possibile rinnovare questo tipo di repertorio, la McKennitt risponde che «non si tratta di uno sforzo cosciente, né intellettuale; dopo aver ascoltato quei brani ho iniziato a elaborare una mia rilettura, cercando di catturarne il sentimento e di preservarlo». L’imminente viaggio in Italia ci dà modo infine di accennare alla nostra tradizione musicale e alla presenza nel nostro territorio di quella scena cosiddetta celtica — non esente da stereotipi, sin dall’opinabile denominazione — che è in qualche modo transnazionale: «La tradizione celtica, soprattutto irlandese, ha un fascino che si accorda a diverse latitudini. Ed è la stessa qualità che ha attratto me. Ma la vostra tradizione musicale è altrettanto ricca, gli italiani sono profondamente predisposti alla musica».