Ed eccola, Loreena McKennit, voce limpida e sorridente. Voce che non arriva dalle note di una canzone, ma da un telefono in linea con Toronto, pochi giorni prima del tour italiano. Tappa d’esordio Trieste, il 23 marzo, Politeama Rossetti. Poi Padova il 24, Roma il 26, Firenze il 27, Assago il 28. Loreena porterà sul palco il suo ultimo lavoro, Troubadours on the Rhine, nove brani registrati unplugged negli studi della SWR1 a Mainz insieme a Brian Hughes, chitarra, e Caroline Lavelle, violoncello. Lei canterà all’arpa e al pianoforte. Un’avventura musicale di successo iniziata dentro i confini di una terra, il Canada, dove le sonorità celtiche erano sotto ogni aspetto lontanissime. Figlia di un grossista di mandrie e di un’infermiera, Loreena abbandona il folk nordamericano quando, in un locale di Winnipeg, ascolta musica irlandese e ne rimane, parole sue, attratta senza rimedio. Forte di un talento che aveva sviluppato studiando canto e pianoforte, nel 1981 si trasferisce a Strattford, Ontario. E lì prende forma, Elemental, l’album del debutto, che uscirà nel 1985 per la Quinland Road, etichetta da lei stessa creata.

L’autoproduzione fu una scelta precisa, oppure non trovò nessun discografico disposto a investire sul disco?

Allora non conoscevo neanche i nomi delle compagnie discografiche, e tanto più il modo per mettermi in contatto con loro. Da giovane volevo diventare veterinaria, chiesi in prestito ai miei genitori i soldi messi da parte per pagarmi l’università, e con quei soldi registrai Elemental. Regalai il disco a familiari e ad amici, le altre copie riuscii a venderle suonando per le strade di Toronto. Non c’era alcun progetto di carattere economico. Volevo incidere la musica che amavo.

Si è affermata come una una delle più grandi interpreti e autrici di musica celtica, ma poi nei suoi lavori arrivano suoni che nascono dai viaggi in Europa, Asia e Nord Africa

Fu una mostra a Venezia sui celti, a determinare il cambiamento. Vi partecipavano molti artisti dall’ex blocco sovietico e dall’Europa dell’Est. Devo a loro la scoperta della vastità di una cultura che arrivava fino all’Asia. Mi domandai così quale direzione prendere, e decisi di seguire la storia dei celti piuttosto che restare ancorata alla pura musica tradizionale; di trasformare queste diverse influenze in un disco. Studiai i luoghi dove le tribù celtiche vivevano e si spostavano, la gente con cui commerciavano e si mescolavano. Poi iniziai a viaggiare. The Mask and the Mirror è scrittura musicale itinerante più che creazione artistica.

Sempre nello stesso album, i suoni di paesi lontani si uniscono ad atmosfere medioevali e rinascimentali, a testi tratti da Shakespeare, Yeats, Dickens, Joyce.

L’Europa ha avuto su di me una fortissima influenza. Non ho mai frequentato un’università europea, perciò ho fatto della musica uno strumento da autodidatta; ho usato la mia carriera per crescere tramite la lettura, la scrittura, gli incontri. Il dominio dei media nordamericani continua a penalizzare molte culture, a impedire che vengano apprezzate come meritano. Per quanto mi riguarda ho tratto dalla loro varietà solo grandi benefici».

Troubadours on the Rhine, al pari di The Wind That Shakes The Barley del 2011, rappresenta un ritorno alle origini

Sì, ma con una differenza. Nel caso di The wind, in molti mi dicevano di apprezzare gli album nati dai miei viaggi, tuttavia mancava loro il folk più semplice e tradizionale. Troubadours è invece un lavoro e un concerto intimo. Questo mi dà la possibilità di dialogare con il pubblico, raccontando le storie e i cambiamenti personali che i brani esprimono.