Intervistare Loredana Lipperini è quasi un paradosso essendo da trent’anni a Radio3, di cui quattordici a Fahrenheit, il programma dedicato ai libri e dove ogni settimana intervista decine di autori e personaggi del mondo della cultura. È anche scrittrice, opinionista, fino all’ultima edizione è stata consulente del Salone del Libro di Torino, è collaboratrice di svariati festival letterari e di altre attività come spettacoli e podcast. Fra non molto arriverà il pensionamento dalla Rai, la fine di un ciclo, vale quindi la pena di fare il punto sul mondo delle parole. Quando la chiamiamo è appena tornata da due concerti narrati su Adelaide Ristori con l’Orchestra Giovanile dei Filarmonici Friulani: “Ho sempre vissuto due vite: quella che sogna la solitudine della scrittura, e quella che ha bisogno delle parole non scritte, ma parlate da portare in giro per incontrare persone e poterle conoscere. La sensazione è che si parli troppo poco, i discorsi sui social, seppur importanti per molti versi, non sostituiscono il confronto dal vivo”.

Dal di qua ci si domanda come si possa non essere ripetitivi e scontati nel fare continuamente interviste ad autori e autrici…

La risposta è banalissima: leggendoli. Dovrebbe essere il livello base della cassetta degli attrezzi, ma non avviene sempre. E poi ascoltandoli: chi intervista deve mettere decisamente da parte quel che ha da dire per lasciare spazio a quello che dicono gli altri. Quanto al trovare le parole nuove, vale il consiglio che do a chi comincia a condurre: leggere poesia. La poesia molto spesso ha le parole che cerchiamo.

Le interviste più complicate?

Quella a Michel Houellebecq, che arrivò all’ultimo momento negli studi di Milano dopo quella che poteva essere, diciamo così, una lunga concessione al sonno o a una considerevole bevuta, e che inizialmente non voleva rispondere. Poi, però, ha risposto eccome. E quella a Vitaliano Trevisan per Works. Trevisan è stato uno scrittore enorme, ma si trasformava nel ruolo dell’intervistato fino a diventare quasi afasico. La considero la mia più bella intervista.

I capelli ricci possono diventare un motivo di attacco sui social, per non parlare di quando ti esponi su temi più prettamente politici. Sono cambiate negli anni le modalità di stare online?

Sono cambiate, tendiamo sempre più a identificare le nostre vite con quelle che mostriamo sui social: faccenda pericolosa per più motivi. Primo, perché quelle che affidiamo a una bacheca sono vite ritoccate. Non solo abbellite, non è vero che si mostri di noi soltanto l’aspetto più accattivante. Leggo anche bacheche lontane da me e mi stupisco che si possa voler condividere momenti di grande intimità, come la morte di un padre o di una madre. Comprendo le motivazioni, ma resta il fatto che se mi ammalassi di Alzheimer, l’ultima cosa che il barlume residuo di me stessa vorrebbe è vedermi filmata mentre canto filastrocche o cullo bambole. La continua narrazione del sé sta influenzando anche la narrativa: recentemente ho scritto di come le cinquine di Strega e Campiello abbiano incluso solo un romanzo a testa, per lasciar spazio a memoir o autofiction o biografie o saggistica. Un’esigenza di “realtà”, ammesso che si possa parlare di realtà in letteratura, che credo sia direttamente figlia della continua esposizione alle vite degli altri. Quanto agli odiatori, le cose stanno come prima, se sei visibile, sei colpevole.

Loredana Lipperini

Come si stanno evolvendo le parole scritte e parlate? Faccio riferimento per esempio ai podcast o ai festival

Mi auguro che si continui a credere in quello che ci ha tenuti insieme, come esseri umani, da millenni. Parlo di storie, parola che fa venire le convulsioni a certa critica letteraria in quanto si ritiene che equivalga al vituperato storytelling. Ma dalle storie siamo abitati, che lo si voglia o no. Quanto ai podcast, è una forma narrativa bellissima, è radio ed è teatro insieme. Unico dubbio: non cannibalizzare il filone con l’iperproduzione, ma per una volta provo a essere ottimista. I festival: metto da parte i due piccoli appuntamenti che dirigo con amore, perché appunto è facile parlare quando le iniziative sono di dimensioni ridotte. Da frequentatrice professionale, comincio a intuirne la stanchezza, almeno in alcuni casi. Ci vuole una gigantesca energia per evitare che si trasformino in tappe che accolgono autori e autrici che presentano il proprio libro, e per provare a sperimentare direzioni diverse. Se posso, con il gruppo editoriale che ha affiancato Nicola Lagioia in sette anni di Salone del Libro, abbiamo provato a fare esattamente questo.

L’attivismo politico nel mondo della cultura sembra sempre più residuale, esiste ma parrebbe controproducente, almeno in vista di una carriera:

Per me la letteratura è sempre politica o non è, anche se in apparenza si occupa di altro. Come può non essere considerato politico un romanzo immenso come Il passeggero di Cormac McCarthy, che parla di abissi e bombe? La presa di parola pubblica di chi scrive esiste eccome, ma è come se la parola scritta di chi si espone diventasse meno “letteraria” agli occhi dei più. Quegli autori e autrici diventano “personaggio”, intendo, e i loro personaggi letterari passano in secondo piano. È un meccanismo scivoloso, ma quello che si fa a livello personale si riflette sul lavoro culturale e dunque letterario”.

Si stampano circa 200 titoli al giorno, festivi compresi, una media impressionante se si considera il continuo calo dei lettori

Già nel 2011 scrissi un articolo che si intitolava Pronti alla resa, raccontava come gli editori fossero di fatto costretti all’iperproduzione dal meccanismo delle rese. Una bolla che è cresciuta e cresce, difficile capire come se ne uscirà. Non sono d’accordo con chi sentenzia che si scrive troppo, trovo invece bellissimo che persone di ogni età scrivano. Altra faccenda è voler credere, o far credere, che ogni libro sarà un best-seller. Stephen King dice che scrivere è acqua di vita, ed è gratis. Mi sembra la definizione più bella del narrare.