Kyle Kashuv era uno dei tre studenti della Stoneman Douglas High School (il liceo della Florida, dove nel febbraio 2018, 17 studenti e professori sono stati uccisi da un uomo armato fino al collo), che aveva fatto domanda per entrare ad Harvard ed era stato accettato. È della settimana scorsa la notizia che l’università ha revocato la sua ammissione sulla base di commenti «razzisti» che Kashuv avrebbe fatto in una conversazione privata su Facebook, quando aveva sedici anni. Il ragazzo, oggi diciottenne, si è scusato pubblicamente dei commenti quando sono emersi, un mese fa, e lo ha fatto di nuovo l’altro giorno annunciando su Twitter la decisione della facoltà. «Non intendevo ferire nessuno. E oggi non credo di essere la stessa persona di quando ho fatto quei commenti – specialmente dopo la sparatoria a Parkland e tutto ciò che l’ha seguita».

Come altri suo compagni, Kashuv era infatti diventato un riconosciuto attivista per la sicurezza nelle scuole. Solo che, a differenza della maggioranza, il suo messaggio era pro-sicurezza, ma contro il gun control. Via Twitter, Kashuv ha dichiarato che è stata la sua posizione conservatrice a far sì che alcuni ex compagni fornissero all’Università lo scambio su Facebook e che l’Università avrebbe agito per la stessa ragione.

Che sia stato per il punto di vista sulle armi, o perché ha detto «negro» in una conversazione privata, la decisione di Harvard illumina molto bene la temperatura culturale del momento, animata da un’intolleranza sempre più accesa che punisce implacabilmente opinioni, commenti maldestri, ipotetici sgarri di etichetta o quelle che sono identificate come «insufficienze» di carattere. Non importa se stai facendo il gradasso con amici a sedici anni. Fino a qualche anno fa tempi sacri del free speech, oggi le maggiori università americane hanno sposato quell’intransigenza.

La stessa Harvard, l’anno scorso, non ha rinnovato il contratto di un professore di legge dopo che alcuni studenti si sono lamentati perché era nel pool dei difensori di Harvey Weinstein. È a questo clima culturale temibile che sono dedicate alcune delle pagine migliori di White, il nuovo libro di Bret Easton Ellis, che è anche la sua prima raccolta di saggi. Parzialmente derivato dal suo noto Podcast (su Patreon), il nuovo lavoro dell’autore di American Psycho spazia tra il cinema dell’orrore anni settanta che avrebbe temprato la sua personalità, l’importanza di American Gigolò di Paul Schrader nel suo coming out, il successo giovanile di Meno di zero e la genesi del suo personaggio più famoso, Patrick Bateman. Ma Ellis si serve di queste digressioni autobiografiche per parlare delle differenza tra la cultura e l’espressione artistica negli anni della sua gioventù e quella di oggi.

Oggi, garantisce Ellis, American Psycho non troverebbe un altro grosso editore disposto a pubblicarlo dopo che quello originale lo aveva scaricato, perché ne trovava i contenuti offensivi, come era successo con il suo romanzo più famoso. Ellis -nel 2019 un signore di mezza età che vive in relativo comfort a Los Angeles- dedica alcune delle sue frecciate più acute ai Millennials (una generazione caratterizzata, secondo lui, da una sindrome di auto-vittimismo), si prende delle soddisfazioni facili contro il politically correct, smaschera l’angolo di Beverly Hills in cui quasi tutti hanno votato per Trump e celebra Kanye West. Ma il contributo più limpido e raggelante del suo libro è la lucidità con cui identifica la matrice corporate di questo nuovo ordine del pensiero dominante. Non l’espressione libera e creativa di un mondo che aspira ad essere migliore, ma quella opprimente, censoria del capitale.

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