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L’ordinarietà del Male secondo Ulrich Seidl

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Venezia 71 Nel nuovo documentario «Im Keller», fuori concorso, il regista viennese racconta le cattive «abitudini» dei suoi connazionali scendendo nei seminterrati

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 31 agosto 2014

Secondo le stelle, o meglio le «stellette» dei critici italiani alla fine del primo week end il Leone se lo contendono Inarritu con Birdman e Oppenheimer con The Look of Silence (quest’ultimo amatissimo anche dagli spettatori). Ma scorrendo i giudizi «stellari» pubblicati ogni giorno dall’ottimo quotidiano della Mostra, a cura della redazione di Ciak, anche Anime nere è piaciuto (assai meno al pubblico invece almeno nel «campione» consultato).Il film di Francesco Munzi, primo italiano dei tre in gara – oggi è il turno di Saverio Costanzo con Hungry Hearts e in Orizzonti di quello che si annuncia come il migliore film al Lido, il Belluscone di Franco Maresco – ha avuto tredici minuti di applausi alla proiezione ufficiale ma ha un po’ imbarazzato la Regione Calabria che attraverso il suo assessore alla cultura ha espresso il timore (e il dispiacere) di una rappresentazione distorta nel solito e unico stereotipo della ‘ndrangheta. E le polemiche estive sull’inchino della statua della madonna in processione davanti alla casa del boss acuiscono i timori.

Chissà cosa dicono le istituzioni austriache davanti ai film di Ulrich Seidl, il regista viennese che attraverso le «cattive abitudini» dei suoi connazionali ha costruito nel tempo un’immagine molto cruda del suo paese, rivelando attraverso i suoi rituali le cattive abitudini diffuse in molta vecchia Europa. A differenza di Munzi Seidl però lascia fuori i sentimenti, le passioni, i personaggi, la tragedia e il moralismo; le sue incursioni reali esasperano l’aspetto di «finzione», con una messinscena dei gesti, in forma di rituale del quotidiano che produce più verità del vero.

Im Keller, presentato fuori concorso (peccato, poteva essere in gara, è tra i migliori film visti in questi primi giorni) gioca su riferimenti quasi fiabeschi – del resto: sono le fiabe archetipo dei tabù dell’umano – scendendo letteralmente sotto terra, nell’invisibile, in quella buca oscura dove tutto può accadere perché lontano dagli sguardi indiscreti. Siamo infatti nelle cantine – come suggerisce già il titolo, In cantina – che per gli austriaci sono il luogo del tempo libero, e dunque della libertà dalle regole sociali, ma che sono state e continuano a essere spesso sinonimi di violenze, di crimini. O di quelle follie e malesseri molto diffusi che non si possono confessare pubblicamente, e che invece i personaggi di Seidl (tutti «veri») lasciano filmare, permettendo al regista di scoprire la loro intimità.

Chi sono questi austriaci chiusi nelle casette ordinate di una piccola borghesia che esibisce statue della madonna e che storce il naso davanti ai migranti, ai turchi perché guardano le loro donne «bionde e in minigonna» e ai musulmani con mogli e figlie velate di nero che col caldo puzzano di sudore? Un neonazista coi suoi amici, sicuramente con le sue stesse idee, che suona il trombone e spolvera i ritratti di Hitler – «Me lo hanno regalato per le mie nozze, ho pianto quando l’ho visto». Felice tra armi e manichini vestiti da Ss, nella stanza che per lui è la stanza più bella della casa, invita gli amici con cui condivide lo stesso credo dichiarandosi serenamente alla macchina da presa alcolizzato.

Donne sole che cullano bambolotti di cera copie di neonati mettendoli amorevolmente a dormire in una scatola. Uomini che osservano con compiacimento il serpente divorare la piccola cavia. Un tizio che passa le giornate con altri a sparare al bersaglio spiegando come utilizzare le armi. Una coppia sadomaso, lui grasso e peloso, lei grassa coi capelli arancio che lo chiama «il mio schiavo» e gli fa pulire il cesso con la lingua. Lei ha sempre preferito comandare, e per questo con lui è vero amore. In cantina spiega con lo stesso tono con cui si illustra il funzionamento della lavastoviglie, si scende per i godimenti estremi, come appenderlo per le palle e tirarlo su.
C’è la donna masochista che lavora per l’organizzazione contro la violenza sulle donne e si fa frustare sul sedere, ricordando come era abusata dal marito. E il tizio con la parete piena di animali impagliati che racconta le sue gesta di cacciatore «laggiù» presumibilmente in Africa. Il gruppo di adolescenti muti che bevono birra e si strafanno di tutto.

Nella Trilogia Paradies, di cui un episodio, Glaube ha avuto il premio speciale della giuria a Venezia 69 – Seidl parlava di turismo sessuale, nevrosi religiosa, disturbi alimentari dell’adolescenza, impasto di frustrazioni e solitudini e sessualità mal vissuta, e sopra a tutto questo balenava il malessere prolungato di un occidente ripiegato su di sé, in crisi economica, culturale, prigioniero di una nostalgia in cui cullare i propri orizzonti gloriosi. E bisognoso di coltivare l’idea di un nemico pericoloso.

Gli stessi sentimenti che riaffiorano nelle cantine di Im Keller. Filmati frontalmente, in composizioni geometriche, i personaggi/persone di Seidl esprimono una violenza cruda senza orpelli e senza giudizi. Non ve ne è mai nel regista austriaco che riserva le sue inquadrature solo a chi le abita, i protagonisti appunto, evitando con cura di schiacciarli col bisogno colpevole di etichettare queste forze sotterranee. Contraddizioni e perversioni appaiomo come parte della più ovvia «normalità». Im Keller è per questo un film lucidissimo sulla violenza (e senza citare Natascha Kampusch, la poveretta rimasta anni chiusa in cantina nelle mani del pedofilo che l’aveva rapita da ragazzina) attuale e al di là del tempo, che nei fantasmi freudiani di canzoncine e filastrocche «oscene» illumina altri esercizi del potere, altre «stanze», chiese, famiglie, luoghi di lavoro. Una violenza che è nelle relazioni ordinarie prima che negli eventi straordinari, feroce proprio nella sua banalità.

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