La Rivoluzione del 1917 modificò i linguaggi dell’arte: difficile negarlo, se si guarda in particolare al cinema. Nel 1923 Dziga Vertov pubblicava su Lef, la rivista di Majakovskij, il suo più importante manifesto programmatico, I Cineocchi. Un rivolgimento. La parola piuttosto inusuale che compare nel titolo – Perevorot (rivolgimento) – ci informa che Vertov doveva avere in mente una rotazione di 180 gradi, e non di 360, come nel caso della «rivoluzione» intesa in senso astronomico. Una svolta radicale, dunque, che non prevede nessuna forma di ritorno all’ordine. Vero è che il semplice schema del rovesciamento non significa granché se non gli si dà un contenuto. Vertov, che non era un teorico, ci provò col film che stava girando in quei mesi, Kinoglaz (Cineocchio), e che presentò come un autentico atto di guerra contro la cinematografia corrente, a suo dire puro e semplice teatro filmato.

IN REALTÀ, e con un buon decennio di anticipo, il contenuto del «rivolgimento» di Vertov stava dando una fisionomia ben definita alla tanto celebre quanto enigmatica «politicizzazione dell’arte» di cui avrebbe parlato Walter Benjamin nel suo saggio sulla riproducibilità tecnica. Benjamin conosceva alcuni film di Vertov, ma è un peccato che non ne avesse letto anche i pochi scritti programmatici: avrebbe visto che il «rivolgimento» di cui si parla nel manifesto uscito su Lef si può interpretare in diversi modi (per esempio nel senso della cosiddetta «fine dell’arte»), ma anche che il suo vero senso politico si fa chiaro solo grazie a un’altra parola d’ordine messa in circolazione dal cineasta e dal suo gruppo: la cinematizzazione (kinefikacija) delle masse.

CHE COSA INTENDEVA Vertov con questo slogan? Due cose. Non solo un progetto di attiva alfabetizzazione riferito al nuovo mezzo tecnologico, che secondo lui chiunque avrebbe potuto e dovuto imparare a usare per entrare in una grande rete di condivisione, ma anche un programma capace di valorizzare l’esperienza delle immagini resa possibile dalla stretta relazione che, a suo dire, si sarebbe venuta a formare tra l’essere umano e l’occhio meccanico.

Il punto qualificante, qui, non è che l’occhio meccanico vede di più e meglio dell’occhio biologico: questa fu piuttosto la (mediocre) versione futurista della tecnicità del cinema. Il punto è che vede in modo tale da esaltare alcune caratteristiche, essenziali ma inavvertite, della visione stessa. Prima tra tutte la sua reversibilità. Anticipando un tema che sarebbe diventato nodale nella filosofia europea di quegli anni (e penso in particolare alla fenomenologia) Vertov sottolineava che l’occhio umano tecnicamente attrezzato vede solo in quanto è anche oggetto della visione altrui, essendo immerso in un ambiente mediale di cui è al tempo stesso parte passiva e attiva.

Il film con cui Vertov inaugurò il progetto politico del Kinoglaz (che ne prevedeva altri sei) va collocato su questo sfondo, pena la sua totale incomprensione. Il titolo era: La vita colta in flagrante. Il suo scopo: una primissima raccolta, sostanzialmente casuale, di materiali documentari sui quali il progetto prevedeva di ritornare ripetutamente non solo per svilupparli in molte direzioni ma anche per sollecitare la collaborazione di un gruppo di corrispondenti: una rete di «Cineocchi» (Kinoki) estesa a tutte le Repubbliche dell’Unione. Il progetto tuttavia si fermò a questa prima uscita (che si chiude con la didascalia 2.000 metri di Kinoglaz) perché l’ente cinematografico di stato gli tagliò i fondi.

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I RISVOLTI POLITICI dell’intuizione di Vertov sulla cinematizzazione sono essenzialmente due. Il primo è quello di aver proiettato l’innovazione tecnica su uno spazio intimamente pubblico e plurale, secondo una concezione della politica che si può rileggere alla luce del pensiero di Hannah Arendt. Il secondo, ancor più originale, è quello di aver percepito che il compito prioritario di questo pluralismo «tecnicamente assistito» dovesse consistere nella condivisione delle esperienze di lavoro in quanto esperienze responsabili di diverse forme di vita e di cultura materiale, rapporti sociali di produzione e ordinamenti giuridici, obiettivi sindacali e programmi emancipativi. E qui l’indice della dimensione politica assume quella forma che l’ultimo Lukács, memore del suo giovanile Storia e coscienza di classe, avrebbe definito come la «missione defeticizzante» con cui le arti funzionano da anticorpo al «feticismo delle merci».
Per una felice coincidenza nello stesso anno in cui uscì Kinoglaz Sergej M. Ejzenštejn presentò il suo primo film, Sciopero (Stacka), accompagnandone l’uscita con alcuni testi teorici importanti, tra cui particolarmente significativo Il montaggio delle attrazioni cinematografiche. Ejzenštejn aveva introdotto il concetto di «attrazione» in un celebre manifesto dell’anno precedente, riferito a uno spettacolo teatrale di cui fu regista e scenografo: vi si legge che «la materia prima dello spettacolo è lo spettatore» e che il compito specifico del teatro di agitazione consiste nel modificarne l’apparato psichico rendendolo più plastico e più disponibile a riorganizzarsi, anche e soprattutto in un senso politico-ideologico.

LO STRUMENTO DECISIVO di questa riorganizzazione sarebbe appunto, l’attrazione, vale a dire qualsiasi elemento dello spettacolo che sia in grado di esercitare un’azione sensoriale imprevista e violenta sullo spettatore tale da farlo entrare in un regime percettivo diverso dal solito: capace di «disautomatizzare», come dicevano in quegli anni i teorici del «metodo formale», i suoi codici e le sue condotte abituali.
Dell’attrazione due sono gli aspetti prevalenti: il primo sta nel carattere del tutto eterogeneo dei materiali utilizzati. Il montaggio delle attrazioni non è solo una sequenza di shock, ma anche di eterogenei, oggi diremmo un coinvolgimento sensoriale e intellettuale plurimo – «multimodale» e «intermediale».

Il secondo aspetto è che questo lavoro di disautomatizzazione percettiva viene concepito da Ejzenštejn come un dispositivo da cui ci si può aspettare una complessiva rielaborazione del giudizio politico proprio in forza del fatto che il suo modo di operare è contiguo ai livelli più profondi del «pensiero sensoriale», alla zona, cioè, in cui le immagini si intrecciano con i concetti. Così il progetto di Sciopero fu concepito come la messa in fase di un apparato spettacolare in grado di rielaborare cognitivamente ed emotivamente due concetti politico-economici come quelli dello sciopero e della lotta clandestina, allestendone dunque una esperienza nuova.

Ejzenštejn stava dunque procedendo a un completo rimodellamento dello spazio della rappresentazione che, senza ricorrere a una trama narrativa in senso tradizionale, ma anche senza rifiutarne pregiudizialmente le risorse, non esitava a servirsi di qualsiasi elemento formale per intonare la grande orchestrazione semiotica da cui egli si aspettava una «azione efficace» sul sistema nervoso e sulle valutazioni politiche del suo spettatore.

È COSÌ CHE DOBBIAMO rileggere Sciopero: un film inclassificabile e sprovvisto di qualsiasi coerenza che non sia riconducibile al paradossale rispetto di un principio costruttivo che non è estetico o stilistico ma immediatamente politico. Tempo qualche anno e Ejzenštejn avrebbe trovato nelle tesi innovative del suo amico e collaboratore Lev S. Vygotskij un saldo terreno scientifico per ridimensionare le sue pretese rivoluzionarie senza abbandonarne l’orientamento trasformativo di fondo. Se l’esperienza dell’arte non ci modificasse, infatti, avrebbe fallito il suo compito.

Ejzenštejn e Vertov si combatterono in modo duro e irriducibile, per motivi che oggi ci sembrano futili. Il primo considerò ingenua e maldestra la scomunica dell’arte sbandierata dall’altro. Il secondo non perdonò al rivale di aver mescolato fiction e documento, inquinando la presunta purezza della nuova risorsa tecnologica. Non serve un grande sforzo di immaginazione, tuttavia, per arrivare alla conclusione per cui, nelle condizioni del nostro attuale commercio con le immagini prodotte tecnicamente, le rispettive teorie del cinema politico si sono fatte ampiamente coordinabili. E preziose. Un altro aspetto, piuttosto, sembra più importante da sottolineare: sia Ejzenštejn che Vertov concepirono il lavoro con le immagini come una manifestazione diretta della lotta politica, un conflitto in cui ne andava del futuro di un’intera cultura. Quando prendiamo posizione nella querelle (spesso stucchevole) sull’uso delle immagini in rete non dovremmo mai dimenticare che quel conflitto e tuttora in atto e si è fatto ancor più virulento.

SCHEDA

L’impatto della rivoluzione d’Ottobre sul corso della storia e sulla filosofia politica è un fatto innegabile. Meno ovvio, ma altrettanto innegabile, è il peso che il 1917 ha avuto nelle scienze umane, nei modi di fare e di concepire la letteratura, la pittura, il cinema, il teatro. Al di là delle posizioni assunte dai singoli artisti e intellettuali rispetto ai programmi bolscevichi, è indubbio che lo spartiacque del ’17 ha gettato una luce diversa, in Russia come in Occidente, tanto sulle sperimentazioni delle avanguardie quanto sulle forme più tradizionali di scrittura e di pensiero, riqualificandone le ambizioni e la portata etica. A questi temi l’Università di Cassino dedica il 24 e il 25 ottobre un convegno intitolato «I linguaggi della rivoluzione», curato da Raissa Raskina e Franco De Vivo, durante il quale, tra gli altri, interverranno Mario Capaldo, Guido Carpi, Valerio Magrelli, Pietro Montani, Paolo Virno.