L’ora Brexit, fissata il 29 marzo con lo scattare dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, galoppa verso la morta gora di Westminster, agitata fuori tempo massimo dalle prime defezioni.

Sotto crescente pressione per la diserzione dei tre deputati conservatori eurofili confluiti nel cosiddetto «gruppo indipendente» (hanno mollato il partito come gli otto transfughi della destra Labour) e dalle minacce di alcuni suoi ministri di fare altrettanto, Theresa May ha concesso al parlamento, attraverso due voti da tenersi il 13 e 14 marzo prossimi, di esprimersi su un possibile no deal e su un’altrettanto possibile procrastinazione della data di uscita oltre il 29 marzo.

IL VOTO DEL 14, in particolare, avrebbe luogo nel caso in cui quello del giorno prima non desse ai partigiani della permanenza la possibilità di esprimere il loro «consenso esplicito» a un’uscita «dura». Queste sessioni di voto avrebbero a loro volta luogo qualora – fatto assai probabile se non scontato – il 12 di marzo, data in cui May ha annunciato un altro «voto significativo» della Camera, i deputati avranno ri-bocciato (come avevano fatto brutalmente a gennaio) la nuova bozza d’accordo per l’uscita, i cui punti dolenti, soprattutto il backstop al confine nordirlandese, la Premier sta cercando di convincere Bruxelles ad emendare.

MAY HA ACCURATAMENTE EVITATO di dichiarare le intenzioni di voto sue e del governo in entrambi i casi, ripetendo la filastrocca ormai usurata: «o il mio accordo, o no deal oppure – orrore – niente Brexit». Un vicolo cieco che potrebbe palesarsi, quando si pensi che la possibile estensione dell’articolo 50 oltre la fine di giugno andrebbe a lambire le elezioni europee e comporterebbe l’invio di deputati britannici a Bruxelles: un’ipotesi, dati gli attuali umori dell’addome del Paese, imponderabile.

Ieri Jeremy Corbyn ha nuovamente accusato la Premier di tirarla per le lunghe, nella cinica speranza che alla fine Westminster, terrorizzato dallo spettro incombente di un no deal fatto di file chilometriche di Tir a Dover e di cittadini davanti alle farmacie e a negozi, inghiotta il rospo del suo accordo, che ha nettamente rifiutato finora. Ma la tattica che devia apparentemente dalla strategia pur di guadagnare tempo e spazio non gli è per niente estranea. Lunedì sera si è a sua volta finalmente lasciato strappare il sì a un secondo referendum sulla cui formulazione si brancola naturalmente ancora in un buio pesto, anche se prima presenterà (di certo invano) un emendamento per un «Brexit secondo Labour», un’alternativa ufficiale del partito all’accordo May.

CAPITOLARE sul secondo referendum serve a cauterizzare l’emorragia di deputati centristi che usano Brexit e l’«antisemitismo istituzionale nel partito», peloso pretesto per stigmatizzare la fine del filo-sionismo istituzionale dello stesso (ovverosia l’impegno a fianco del popolo palestinese, semplicemente inconcepibile ai tempi del New Labour), come pretesti per attentare una volta di più alla sua leadership. Gli spasmi di Brexit non consentono più al leader quel cerchiobottismo che gli aveva finora permesso di sottrarsi all’abbraccio mortale di una posizione univoca sulla lancinante questione. Piaccia o no, questa nuova posizione è una vittoria per il centrodestra del partito.

L’APPEASEMENT (accomodamento), è parola tabù in Gran Bretagna: si riferisce alla politica fallimentare e moralmente odiosa con cui il predecessore di Churchill, Neville Chamberlain, cercò di ammansire Hitler durante la crisi dei Sudeti. Sappiamo come andò a finire. È tornata attuale in questi ultimi giorni a un mese esatto da Brexit nelle segreterie del governo di minoranza Tory e dell’opposizione Labour. Sia Theresa May che Jeremy Corbyn hanno dovuto «accomodare» le richieste alla propria sinistra e destra.

Ed entrambi rischiano le ire dei rispettivi sostenitori: lei quella dei fanatici brexittieri dai cui tentacoli si era lasciata irretire e da cui, ora che il partito perde pezzi, sta cercando di divincolarsi; e lui dalla consistente base operaia che aveva votato per un’uscita unilaterale e che, nell’attuale clima di scollamento drammatico fra cosiddetto Paese reale e istituzioni, finirà per considerarlo «uguale a tutti gli altri».