Il luogo della parola di Djamila Ribeiro è il primo libro della collana «Intersezioni» della giovane casa editrice Capovolte di Alessandria. La collana, che debutta felicemente con questo libro, vuole raccontare il pensiero e le pratiche delle donne dando la parola a nuove possibilità di narrazione. Anche in Brasile Lugar de fala è l’opera di apertura di una collana, «Feminismos plurais» (della casa editrice Pólen Livros), che libera la parola di autrici e autori neri che parlano di empowerment, intersezionalità, razzismo strutturale e pensiero decoloniale – trovando, cosa non scontata, il luogo cartaceo per raccontarsi e raccontare. Il luogo della parola, nella traduzione di Monica Paes (postfazione di Valeria Ribeiro Corossacz, pp. 112, euro 12), vuole raccontare come trovare uno spazio d’espressione significhi essersi innanzitutto autorizzate alla parola e aver reperito poi lo spazio per darle voce in un intorno in cui la bianchezza, il maschilismo e l’eterosessualità sono la norma. Chi può parlare? Cosa succede quando si parla? Di cosa si può parlare? Liberare la parola è pericoloso?

FILOSOFA ed editorialista brasiliana, Ribeiro condensa in questo libro di agevole fruizione le sue ricerche in filosofia politica intrecciandole all’attivismo antiazzista, pro-Lgbt e antimachista. Con riferimenti frequenti e puntuali al pensiero e alle pratiche di femministe sudamericane razzizzate come Sueli Carnero, Grada Kilomba, Linda Alcoff, Gloria Anzaldúa, Lélia Gonzalez e molte altre, Djamila Ribeiro situa il suo pensiero e allo stesso tempo sceglie di confutare la neutralità della conoscenza sottolineando l’importanza e la necessità di rompere con l’idea della voce e della storia unica.

Pensare al luogo della parola vuole dire infatti situare il luogo dove è nata, individuare il sistema delle gerarchie e delle oppressioni entro cui ha resistito; attorno a quali pensieri – pur marginali, anzi radicali proprio perché marginali – questa parola ha preso forza. Le donne nere hanno occupato per secoli uno spazio in sospensione, ai margini della razza e del genere e da questo spazio così inascoltato e invisibile ai dibattiti politici e accademici, vuole emergere e «prendere luogo» questa parola. Come scrive Ribeiro, «se per Simone de Beauvoir la donna è l’Altro perché non ha la reciprocità dello sguardo maschile, per Grada Kilomba la donna nera è l’Altro dell’Altro, posizione che la mette in un luogo di ancor più difficile reciprocità».

NELLE PRIME PAGINE del suo libro, viene riportato il discorso di Sojourner Truth, nata in schiavitù nel 1797 e divenuta un’abolizionista e attivista per i diritti delle donne: «Quell’uomo lì dice che bisogna aiutare le donne a salire su una carrozza, che bisogna portarle in braccio quando attraversano una zona fangosa e che dovrebbero occupare sempre i posti migliori. Nessuno mi aiuta mai a salire sulla carrozza, ad attraversare il fango e tantomeno mi cede il posto migliore. E non sono forse una donna? Guardatemi!».

Un luogo in cui la voce delle discendenti reali e simboliche di Sojourner Truth prende spazio e in cui la reciprocità di cui parla Grada Kilomba diventa più accessibile è proprio quello che Ribeiro intende come «il luogo della parola». Il silenzio imposto alla parola della «donna subalterna», che ci fa pensare alla nota definizione di Gayatri Chakravorty Spivak, vuole essere superato e trasceso perché è con la trasgressione del divieto che si delegittima la norma colonizzatrice del discorso bianco, maschile dominante. Accompagnata dalla teoria del black feminist standpoint di Patricia Hills Collins, Ribeiro evidenzia l’importanza delle esperienze storiche e sociali condivise. Si tratta infatti di concentrarsi sulla diversità delle esperienze di uomini e donne, tenendo conto della loro localizzazione nelle relazioni di potere, nonché delle numerose intersezioni che di conseguenza si creano. Importante per le donne razzizzate è autodefinirsi, secondo l’esigenza di rompere il silenzio – di decolonizzare quel silenzio che è memoria del terrore schiavista della «storia molto sporca» di cui parlava Toni Morrison.

PER ROMPERE definitivamente con il discorso egemonico della società suprematista bianca e patriarcale, trovare il proprio «luogo della parola» significa riconoscere il valore della propria esperienza individuale, quella di soggetto minorizzato e invisibilizzato che coopera con altri soggetti per prendere parola. Djamila Ribeiro, attraverso la rivendicazione di quel luogo, rivendica anche la propria esistenza, quella della sua pratica e del suo pensiero politico. Come lei tutti quei soggetti a cui storicamente non è stata concessa la parola reclamano la specificità e l’esclusività della propria esistenza – andando contro la «convinzione oggettivista» che parlare di sé abbia a che fare con la parzialità dell’esperienza e generi solo separatismi e distinguo accessori.

NELLA POSTFAZIONE al libro, Valeria Ribeiro Corossacz, in riferimento all’insegnamento della sociologa e militante femminista e antirazzista Colette Guillamin, spiega quanto sia necessario definire questa presunta oggettività del pensiero dominante come un esercizio di potere del pensiero bianco, maschile e occidentale; e lo sia altresì ammettere che la «percezione di neutralità» di queste analisi derivi esattamente dall’effetto del dominio e dalla volontà precipua di occultare i rapporti di potere tra le classi e i generi. La presunta neutralità e validità scientifica delle analisi, come l’oppressione di classe, genere e razza nascono da relazioni di potere atte alla formazione di classi di dominanti e di dominate, dominati, di soggetti bianchi e di soggetti non bianchi.

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Qui l’intervista a Djamila Ribeiro