La mostra personale di Claire Fontaine, dal titolo La borsa e la vita, si aprirà domani 7 marzo al Palazzo Ducale di Genova (a cura di Anna Daneri, visitabile fino al 5 maggio). Una data non casuale, la vigilia della giornata delle donne, per un’artista collettiva che già dalla scelta del proprio nome pone il femminismo al centro di una ricerca estetica fortemente intrecciata alla critica del presente e delle sue forme di subordinazione.
Lavoro riproduttivo, valore d’uso, violenza del denaro in parallelo alla sua smaterializzazione sono temi da sempre presenti in Claire Fontaine, agganciati – nel percorso che comincia nel 2004 a Parigi – a una riflessione sul venir meno dei confini tra vita e lavoro, tra produzione e riproduzione. È la svolta «biopolitica» di un potere che si esercita direttamente sulla vita, della quale i movimenti femministi si sono accorti per primi e che Claire Fontaine rielabora con una poetica che realizza contemporaneamente opere e testi, intervenendo tanto sull’immaginario che sul linguaggio.

La critica dell’economia politica e il femminismo sono due assi importanti del vostro lavoro che convergono nella critica dell’economia libidinale e delle condizioni di produzione del desiderio nelle società capitalistiche. L’arte ha in questo un ruolo specifico e poteri maggiori di altre forme di critica?
Come Paul Preciado spiegava chiaramente qualche giorno fa al Pac a Milano, il terreno di lotta oggi non è più definito dalle condizioni di produzione ma da quelle di riproduzione. Il concetto di riproduzione va inteso in senso largo, la creazione del sé, della vita, dei rapporti sociali, dell’amore: il capitale non produce nessuna di queste cose ma le consuma e le distrugge in modo parassitario senza permetterne la rigenerazione: il disastro ambientale ne è la prova. Questo è lo spazio del sensibile in cui si radica il materialismo contemporaneo e in cui il femminismo e l’arte si sviluppano, di certo questi due campi del pensiero sono vitali per cercare soluzioni alla crisi attuale.

Anche il lavoro artistico in generale non è esente dalla precarizzazione economica, da un lato, e dalla sua finanziarizzazione, dall’altro. In fondo, l’opera d’arte – proprio come il denaro una volta sganciato dai parametri auriferi all’inizio degli anni ’70 – è tra le prime merci ad affermare un valore senza doverlo commisurare a nessun altro parametro: tempo, buona esecuzione, contenuto materiale… Come vi posizionate tra questi due poli?
Le questioni economiche sono per essenza ipersemiotiche (dell’ordine dell’astrazione reale) e si rapportano alla vita solo snaturandola – mettendola in un rapporto dipendente e simbiotico col mondo della merce – o rendendola precaria, abbandonandola nel fosso della povertà. La vita è quella che l’arte, il pensiero, i rapporti umani, la produzione rispettosa dei bisogni della natura e degli individui (sganciata dal profitto) costruiscono. Che l’arte sia un settore in cui non esistono parametri razionali di giustificazione della fama e della ricchezza di alcuni e dell’oscurità e della povertà d’altri mostra in modo eclatante che ciò che il collezionista e il museo vogliono comprare non ha prezzo: è esattamente ciò che mette in crisi il denaro in quanto unità di misura in generale. A livello soggettivo, è necessario garantire a sé a alla propria comunità un’indipendenza dai meccanismi patogeni che questo stato di cose genera.

Il valore d’uso torna spesso in molti vostri lavori: un mattone, ricoperto di volta in volta con le riproduzioni delle copertine dell’opera di Marx, di Lonzi, di Balestrini, che ci ricorda che la critica è un’arma teorica ma dai risvolti materiali. Qual è il valore d’uso dell’opera d’arte nella vostra prospettiva?
Il valore d’uso dell’arte è esistenziale, la sintassi del visivo permette di riorganizzare esperienze altrimenti confuse che non trovano una forma adeguata nel linguaggio e nelle parole. Le opere citate parlano del libro divenuto arma, ma anche divenuto illeggibile: perché l’oggetto trasformato in ready-made perde il suo valore d’uso; guadagna però un posto nella nostra anima che ci permette di resistere alla morte della speranza sapientemente organizzata dall’ordine economico. Le neuroscienze provano oggi che chi ha speranza e continua a pensare si ammala meno degli altri.

Parte integrante della vostra poetica è un’espressione saggistica e testuale che si colloca sullo stesso piano delle opere. La vostra pratica di scrittura ha un’operatività specifica rispetto alla ricerca visiva?
Il lavoro teorico e la scrittura sono per noi dei campi di ricerca di eguale importanza rispetto alla produzione di immagini e di opere. L’arte contemporanea permette di non applicare una gerarchia a questi due tipi di espressioni, il che per noi ha un importante valore politico. L’antologia dei nostri scritti, Lo sciopero umano e l’arte di creare la libertà (DeriveApprodi, 2018) rende conto chiaramente dei diversi registri che usiamo nella scrittura, non teniamo a creare un meccanismo di omogeneità finalizzata alla riconoscibilità. Quando gli autori si sentono obbligati a una coerenza forzata con l’immagine che il pubblico ha di loro perdono la fedeltà verso il proprio mutevole processo creativo, verso la necessità continua della disidentificazione da sé che sono necessari alla pratica della libertà.