È una storia di stragi quella che costella la presa del potere dei generali birmani che da dieci mesi tengono il Myanmar sotto il tallone dell’ennesima giunta. L’uccisione pianificata e premeditata di almeno 65 manifestanti il 14 marzo scorso nell’ex capitale è solo l’ultima in ordine di tempo, come denuncia un rapporto pubblicato da Human Rights Watch che accusa le forze di sicurezza birmane di aver deliberatamente ucciso chi protestava (allora pacificamente) chiedendo il ripristino del governo democraticamente eletto di Aung San Suu Kyi.

NEL DOSSIER Myanmar: Protesters Targeted in March Massacre Hrw racconta come le forze di sicurezza birmane abbiano deliberatamente circondato un gruppo di manifestanti contro cui «hanno usato forza letale durante le proteste anti-giunta del 14 marzo 2021 a Hlaing Tharyar, Yangon… Soldati e polizia armati di fucili d’assalto hanno sparato sui manifestanti intrappolati e su coloro che cercavano di assistere i feriti, uccidendo almeno 65 tra dimostranti e passanti». È un tassello che si aggiunge alla denuncia del Nug, il governo di unità nazionale clandestino, secondo cui in questi dieci mesi i militari avrebbero ucciso circa un centinaio di bambini e almeno 89 donne.

AL 3 DICEMBRE, secondo Assistance Association for Political Prisoners (Burma), il bilancio delle persone uccise dal regime è di 1302 morti, una media di 130 persone al mese. Oltre 10 mila gli arrestati con più di 340 condanne esecutive e due migliaia di mandati cui ieri si sono aggiunti quelli ai funzionari di livello intermedio dell’Uffico elettorale che certificò la vittoria del partito di Suu Kyi nelle elezioni del novembre 2020. Anche per la Lady si dovrebbe presto arrivare a sentenza, scelta che aggraverà la posizione della giunta che contro di lei ha montato una vera e propria campagna giudiziaria, fasulla quanto denigratoria.

Elementi che non sono sfuggiti alla Commissione Onu che decide chi deve rappresentare diplomaticamente a Palazzo di Vetro i diversi Paesi.

IL CASO, risoltosi il 1 dicembre scorso con l’ennesimo rinvio, riguardava infatti gli ambasciatori delle due nazioni al centro delle guerre più sanguinose dell’Asia: il Myanmar appunto e l’Afghanistan. Risolto il problema della rappresentanza durante l’annuale Assemblea generale dell’Onu – dove si è deciso di non far parlare né i rappresentanti dei vecchi governi (quello di Win Mint e Suu Kyi e quello di Ashraf Ghani) né gli ambasciatori nominati da quelli nuovi (un militare birmano e un portavoce dei Talebani) – la Commissione di nove membri (tra cui Russia, Cina e Usa), incaricata di decidere sulle credenziali, ha infatti rinviato la decisione sui legittimi rappresentanti di entrambi i Paesi. A data da destinarsi.

I Talebani hanno reagito con durezza mentre i birmani del Nug, più sostenuti da gran parte della diplomazia internazionale, hanno fatto buon viso a cattivo gioco. A differenza dei Talebani, il governo ombra birmano trova sempre più posto nei consessi internazionali (a Roma i suoi esponenti sono invitati a un convegno organizzato il 7 dicembre dai sindacati e da Italia-Birmania Insieme) e così nei corridoi della diplomazia internazionale anche se per ora il Nug (come i Talebani ma forse con più chance) resta in sala d’attesa.

Qualcosa comunque si muove. Lo dimostrano due episodi recenti solo apparentemente secondari: a fine novembre la giunta è stata esclusa da due summit internazionali. Il primo organizzato dall’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico di cui anche il Myanmar fa parte.

E AL MEETING VIRTUALE Asia-Europa (Asem) la giunta non è stata invitata. O meglio, l’Asean ha fatto sapere che avrebbe accettato solo osservatori birmani e non rappresentanti politici tanto che Naypyidaw ha poi deciso di non mandare nessuno. Ma forse ancora più sonoro è stato lo schiaffo arrivato dai cinesi.

Prima del vertice Asem infatti, Pechino ha escluso i golpisti dall’Asean-China special summit. La Cina avrebbe cercato di convincere gli altri ad accettare al tavolo i generali salvo poi scegliere l’esclusione dopo le proteste soprattutto di Malaysia, Filippine, Singapore e Indonesia, che tra l’altro assume adesso la presidenza del G20. Resta aperturista la Cambogia il cui leader ha detto di voler visitare il Myanmar.