Un silenzio surreale avvolge l’Iraq e una mobilitazione popolare senza precedenti. I media ne parlano poco o per nulla, i governi europei sono silenti nonostante la durissima repressione e le richieste dei manifestanti di giustizia sociale e superamento del sistema settario imposto dopo l’invasione Usa del 2003 al paese.

Ieri a farsi sentire è stata Federica Mogherini, alta rappresentante Ue per gli affari esteri, che ha condannato l’uso della forza da parte della polizia irachena e chiesto che «i responsabili degli abusi siano giudicati». Una forza brutale che ha già provocato oltre 260 morti. Gli ultimi quattro ieri a Baghdad.

Delle vittime non ha invece fatto menzione l’inviata dell’Onu per l’Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert. Mercoledì in un tweet ha criticato i manifestanti per il blocco di porti e impianti petroliferi, senza citare la repressione: «L’interruzione di infrastrutture fondamentali preoccupa molto. Minacciare o chiudere le vie per gli impianti petroliferi e i porti causa perdite di miliardi».

Lei che aveva fatto visita ai manifestanti arrivando in piazza Tahrir in tuk tuk fa passare un inquietante messaggio: che il petrolio sia più importante dei diritti. A risponderle migliaia di iracheni, quelli che dall’inizio di ottobre protestano e che da 13 giorni presidiano il centro di Baghdad e le città del sud.

Le perdite ci sono e le calcola il generale Khalaf, portavoce del premier Adel Abdul-Mahdi, affatto intenzionato a farsi da parte: sei miliardi di dollari per il blocco del porto commerciale di Umm Qasr, a Bassora. Ha poi minacciato i manifestanti: «Arresto immediato di chiunque provi a bloccare strade e ponti».

Gli hanno risposto, indirettamente, bruciando copertoni all’ingresso dello scalo. Il presidio continua. E si allarga: sempre più persone, cristiani e musulmani, studenti, professionisti, medici, operai, disoccupati. si uniscono alla rivolta popolare.