Quando si tratta di scrivere biografie culturali gli inglesi sono bravissimi perché hanno perfezionato nel tempo un genere letterario fatto di una miscela calcolata di racconto, informazione e documentazione. Più la mescolanza fra il pettegolezzo, la storia, le citazioni dalle lettere e dagli archivi è fluida e il composto uniforme, più il libro è efficace. Quel che tiene insieme l’emulsione è la scrittura; l’inglese del libro di Martin Gayford Artisti a Londra Bacon, Freud, Hockney e gli altri (Einaudi «Saggi», con 114 illustrazioni nel testo, pp. 352, euro 35,00) è scorrevole e brillante; sorprende che la casa editrice italiana si sia contentata di una traduzione così fiacca.
Artisti a Londra è una biografia plurale, che parla di una trentina di anni di pittura londinese, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando Londra era semidistrutta dai bombardamenti, la Swinging London degli anni sessanta, e i settanta. Il titolo italiano è fuorviante perché nel testo si parla non di artisti in generale, ma solo di pittori (il titolo inglese è Modernists & Mavericks: Bacon, Freud, Hockney & the London Painters): la scultura o le forme di espressione performative, dematerializzate o concettuali non hanno spazio (Gilbert and George sono appena nominati; di Art & Language non vi è traccia). Fanno eccezione le poche pagine dedicate al principe degli scultori modernisti inglesi, Anthony Caro, e a Eduardo Paolozzi, del quale tuttavia Gayford parla non come scultore, ma come autore dei collages della fine degli anni quaranta, creati con i ritagli delle pubblicità dei rotocalchi americani: un primo segno di ottimismo nell’ambiente londinese dopo la tragedia della guerra e incipit della vicenda dell’Independent Group.
Gli appassionati di pittura, invece, nel libro di Gayford trovano tutto, dagli artisti di fama planetaria – i tre del titolo (Bacon, Freud e Hockney), Richard Hamilton, Bridget Riley –, ma anche artisti noti prevalentemente in Inghilterra, come i pittori della Euston Road School, William Coldstream, Victor Pasmore e Claude Rogers. Astrattisti lirici come Howard Hodgkin, pop come Peter Blake, Allen Jones, o la bella e sfortunata Pauline Boty. Molte le donne: oltre a Boty e Riley, Prunella Clough, ad esempio, Gillian Ayres, Sandra Blow. Il libro descrive il tessuto connettivo della pittura inglese di quegli anni, fatto di atelier, gallerie, mostre, quartieri prediletti di Londra, ristoranti, pub o night club, ad esempio il Colony Room, della leggendaria Muriel Belcher, dove gli artisti passavano serate e notti tra risse, gioco d’azzardo e soprattutto sbronze, così ripetute da far pensare che alcuni, come Francis Bacon e Lucian Freud (scomparsi rispettivamente a 82 e 89 anni), fossero dotati di versioni di fegato e pancreas diverse da quelle montate di serie sugli altri esseri umani. Michael Andrews, frequentatore del Colony Room, ne dipinse nel 1962 una famosa immagine, dove (tra gli altri) compaiono Bacon, Freud, e John Deakin, il fotografo testimone fra i più acuti di quella scena artistica.
Al Borough Polytechnic
Il libro è attento anche agli insegnanti: vi si parla di David Bomberg, protagonista della prima stagione dell’avanguardia inglese, che negli anni quaranta, quasi dimenticato come artista, insegnava con forza e personalità al Borough Polytechnic di South Bank, di John Minton, alcolizzato e suicida a quarant’anni, maestro di pittura alla Camberwell School of Art, dove insegnarono anche Coldstream e Pasmore. Gayford parla inoltre del ruolo dei critici: Lawrence Alloway, fondatore dell’Independent Group e sostenitore dell’idea di un «lungo fronte» che va dalla cultura alta a quella di massa (per cui inventò l’espressione «pop art»); Richard Morphet, Lawrence Gowing, David Sylvester, autore delle bellissime interviste a Francis Bacon, Cyril Connolly, anima della rivista «Horizon».
Il volume si apre sulle macerie di Londra, sui lutti, la miseria, la fame, una condizione che trovò riflesso immediato nelle Tre figure ai piedi di una Crocefissione (1944) di Bacon, Erinni monche e bendate, contorte e urlanti, o nel Dipinto, dello stesso autore, dove una figura umana a bocca spalancata sotto a un ombrello è seduta davanti a un bue macellato appeso per le zampe. Accanto a Bacon, l’altro protagonista di questa fase è Freud: tanto veloce il primo quanto lento il secondo, che dipingeva allora per delicate velature, mettendo a fuoco ogni dettaglio, alla maniera dei fiamminghi del Quattrocento. La volta che nel 1959 Freud, per conto della rivista «Time», dovette fare il ritratto di Ingmar Bergman, questi, stufo per il protrarsi delle sedute di posa, disse al pittore che avrebbe preferito passare quel tempo a letto con la moglie.
Con gli inizi degli anni cinquanta la situazione dell’arte inglese cambia, si arricchisce e si diversifica: se la linea figurativa continua con la pittura di materia di Leon Kossoff e Frank Auerbach, alcuni, come Pasmore, passano all’astrazione, mentre alcuni giovani artisti e critici, come Paolozzi, Alloway, Rayner Banham e Richard Hamilton nel ’52 danno vita all’Independent Group, primo raggruppamento a guardare con divertito interesse al kitsch della cultura di massa degli Stati Uniti e a usare le iconografie della pubblicità, del fumetto e del cinema di consumo, un decennio prima degli artisti pop di New York. Il volto ufficiale che in quegli stessi anni cinquanta l’America proponeva di sé a Londra andava in tutt’altra direzione: le due grandi mostre allestite alla Tate – Modern Art in the United States (1956) e New American Painting (’59) – promuovevano infatti la pittura alta e tragica dell’Espressionismo Astratto. Molti inglesi ne subirono il fascino, chi di Pollock e De Kooning, come Alan Davie e Gillian Ayres; chi di Rothko, come Patrick Heron. Ne risentì anche Ralph Rumney, parte del piccolo gruppo inglese legato all’Internazionale Situazionista.
Il cambiamento degli anni sessanta si riscontra da una parte nelle assolate piscine californiane, nei ritratti e nelle stanze da letto di Hockney, dove l’eros dei corpi si raffredda in una luce tersa e limpida, priva di effetti atmosferici; o nella pittura di Bridget Riley, una cui immagine compare sulla copertina della mostra The Responsive Eye (MoMA, 1965) che provò a fare un punto sulle ricerche legate alla psicologia della percezione e all’interazione tra opere e pubblico. Gli Stati Uniti, del resto, furono un interlocutore importante per gli artisti e critici inglesi di cui parla Gayford: alle brume e al perbenismo londinesi Hockney, lo si è detto, preferisce la più luminosa e libera California e Alloway nel 1961 va a lavorare in America come curatore, insegnante e critico. I movimenti non vanno, tuttavia, in un’unica direzione: ci sono anche americani che si stabiliscono a Londra per lunghi periodi, come R.B. Kitaj, o il suo amico Jim Dine, che vi lavorò alla fine degli anni sessanta, in una delicata fase di passaggio del suo lavoro.
L’influenza di Sickert
Nel volume si riscontra spesso una tensione fra apertura internazionale e dimensione insulare che investe tra l’altro la questione delle fonti d’ispirazione. Se tanti artisti inglesi sono veloci a recepire l’Espressionismo Astratto o la Pop Art, resistono a lungo le influenze di artisti locali, grandi ma mal noti fuori dalla Gran Bretagna, come W.R. Sickert, guardato con attenzione da Bacon, Matthew Smith o Stanley Spencer.
Di Artisti a Londra, oltre alle notizie, restano in mente anche alcune immagini, come quella tragicomica di Freud negli anni sessanta. Povero e dimenticato, in transito verso una pittura di materia assai più sensuale della precedente, l’artista giocava alle corse soldi che non aveva e cercava, regalando qualche bottiglia di whisky agli operai, di guadagnare qualche giorno in più prima della demolizione della sua casa… Di lì a poco sarebbe diventato uno dei pittori più acclamati al mondo.