Il nuovo libro di Guido Caldiron è una sorta di vademecum, con un ampio repertorio di indicazioni e una ricognizione, con relativa mappatura, pressoché esaustiva, della realtà e del panorama del radicalismo fascista in Occidente. Il suo volume dedicato all’Estrema destra (Newton Compton, pp. 470, euro 9,90), si impegna a circoscrivere e a definire il fenomeno nei suoi tratti prevalenti. Lo fa scandendo la sua ricerca intorno a tre momenti: la costruzione del consenso sociale, la messa in campo di una strategia d’azione basata sulla violenza e la persistente offensiva ideologica.
L’autore è giornalista noto per essersi occupato, a più riprese, delle subculture giovanili e dei mutamenti dell’estremismo politico, avendone seguito le numerose evoluzioni. Di quest’ultimo, della sua filosofia reazionaria e del suo violento ritorno sulla scena, ne rende quindi un ritratto inquietante, denunciandone l’attualità. Il transito culturale consumatosi in questi ultimi trent’anni è stato segnato dal ritorno di temi e di motivi che sono passati dall’essere patrimonio di piccole nicchie, ai margini della scena politica, a oggetto di discussione e di considerazione nell’agenda dei governi e dell’opinione pubblica. Più che un ritorno del fascismo, ci segnala Caldiron, abbiamo a che fare con uno spostamento a destra dell’asse politico che ha investito tutta l’Europa e gli Stati Uniti. Con riflessi anche in altre parti del mondo, laddove i processi di globalizzazione hanno ulteriormente agevolato le capacità espansive di atteggiamenti, pensieri e condotte basate sull’intolleranza.

Vincoli di stirpe

Il nesso tra questo andamento, che si intreccia con la dirompenza dei populismi, e l’egemonia culturale del liberismo è netto e indiscutibile. Il declino della democrazia partecipativa ne è il suggello, insieme al riaffermarsi della liceità delle diseguaglianze come paradigma culturale di fondo delle nostre società. Il radicalismo di destra, che non è più la stanca riedizione dei regimi degli anni Trenta, avendo sviluppato semmai una sua autonomia politica da quelle esperienze storiche, si presenta oggi come una complessa e stratificata galassia. I moventi e le radici, insieme agli sviluppi e alla sua capacità di adattarsi alle condizioni date, inducono quindi a parlare più di «estrema destra postindustriale», sulla scorta di quando già il politologo Piero Ignazi sottolineava anni fa, che non di fascismo di ritorno. La cifra comune tra i diversi movimenti che affollano la scena continentale e americana è un radicalismo, non solo politico ma anche culturale e morale, dichiarato e compiaciuto di sé. Questo, in più circostanze, si intreccia con le destre di governo, mantenendovi rapporti di contiguità e scambio.
Un caso emblematico è l’Ungheria di Viktor Orban, il laboratorio di una trasformazione all’insegna dell’attacco al pluralismo. Se per molto tempo il vincolo antifascista aveva impedito tali invasioni di campo oggi, invece, il panorama è mutato. È questo il vero punto dolente: abbiamo a che fare con un neofascismo da salotto buono, la cui funzione è rendere non solo leciti ma anche possibili esercizi di autoritarismo della cui traduzione in atti concreti si incaricano forze politiche falsamente moderate. È un gioco di reciprocità, che sta producendo i suoi effetti. Si pone in quest’ottica il ricorso all’anticomunismo come ideologia di riferimento e di mobilitazione per i ceti medi così come per le classi subalterne.
La destra radicale vive peraltro la crisi di rappresentanza della sinistra come un’opportunità senza pari. Fondamentale è, per il suo programma, rielaborare i legami sociali da un punto di vista etnico. Il suo fattore di forza è che parla ad una intera collettività, denunciandone i problemi (omessi in campo liberale), ma offrendovi una soluzione dichiaratamente regressiva. Alla società sostituisce il concetto di comunità, quest’ultima costituita da soggetti affratellati da «vincoli di stirpe»; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una identità forte, basata sul binomio «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze di ceto la sua falsa realizzazione.
C’è questo e molto altro nelle riflessioni di Caldiron. Tre però sono i fattori di maggiore tensione che egli individua: il declino di ogni residua forma di democrazia sociale, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti di lungo periodo delle immigrazioni. Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che si accompagnano al capitalismo contemporaneo. Della insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo ha tratto un enorme giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra, declinandola però sul versante delle appartenenze razziali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il nome e il volto del «mondialismo» giudaico. Non è però una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattori di aggregazione, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi.

A caccia del nemico

Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di società, il recupero in chiave fobica di due temi come l’omosessualità e l’immigrazione musulmana diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che esiste e che, a suo dire, avrebbe fallito: la democrazia. Di fatto, professando queste posizioni, porta a compimento lo smantellamento brutale dello stato di diritto per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia. In tale modo si candida a rappresentare parti delle nostre società altrimenti abbandonate a sé. Ancora una volta un gioco di specularità con quella parte più rispettabile della comunità politica, di cui si rivela essere, oggi più che mai, un imbarazzante ma necessario alter ego.