L’Africa contempla tante Afriche. Capirne le diversità è uno strumento utile per coglierne anche le unicità, tenendo a mente le contaminazioni. Obiettivo perseguito già dai tempi della Revue Noir, rivista di cultura contemporanea africana fondata nel 1991 da Simon Njami con Jean Loup Pivin e Pascal Martin Saint Léon, che ha contribuito moltissimo alla conoscenza e diffusione del continente africano.
Da allora, lo scenario artistico internazionale è molto cambiato, anche in termini di visibilità e mercato dell’arte africana stessa. Nonché, cosa non indifferente, nella referenzialità del lavoro degli artisti africani per altri (sempre africani) appartenenti alla loro stessa generazione o più giovani. Da Yinka Shonibare a Moataz Nasr, passando per Marthine Pascal Tayou… ecco alcune «citazioni d’inciampo» nella mostra We call it Africa. Artisti dall’Africa Sub-sahariana. Dimitri Fagbohoun, Bronwyn Katz, Marcia Kure, Maurice Mbikayi (a cura di Silvia Cirelli) alla galleria Officine dell’Immagine di Milano, visitabile fino al 2 aprile che porta, per la prima volta in Italia, il lavoro di questi artisti provenienti da paesi come il Benin-Camerun, Sudafrica, Nigeria e Congo.

Discariche tecnologiche

Un percorso espositivo giocato sugli opposti, che comincia al piano terra tra le pareti luminose della galleria dove l’aspetto più appariscente e seduttivo delle opere di Maurice Mbikayi dialoga con l’interiorità del lavoro di Marcia Kure. Installazione, performance e fotografia sono i linguaggi principali a cui Maurice Mbikayi (Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo 1974, vive e lavora a Cape Town, Sudafrica) affida il suo messaggio di arte come resistenza. Techno Addict (2015), come Cyber Warrior (2016), sono installazioni che vedono l’impiego di centinaia e centinaia di tasti del computer. Come avviene quando si preme il tasto sulla tastiera, anche Mbikayi compie un atto di codifica, invitando l’osservatore a riflettere sulle contraddizioni dell’era digitale. Suggestionato dall’immenso cumulo di spazzatura tecnologica che vede nel 2009, nell’angolo del negozio di computer dove aveva portato a riparare il suo laptop di seconda mano, inizia un viaggio che lo porta ad esplorare le contraddizioni della velocità della tecnologia, tra spazzatura e riciclo.

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Bronwyn Katz, ,[object Object],, 2015

 

In Nigeria, come in Ghana, ci sono le più grandi discariche tecnologiche del mondo, cimiteri elettronici di computer, telefonini, fili elettrici… che vengono bruciati all’aria aperta senza alcun controllo. Un’altra influenza immediata è quella della moda, del costume sociale tipico del Sapeur, movimento nato negli anni ’60 a Brazzaville degli «elegantoni» o «arbitri del gusto» – gentlemen, playboy o dandy (protagonisti anche del libro fotografico di Daniele Tamagni Gentlemen of Bacongo, 2009), uomini per i quali entrare in quei panni significa anche affermare la libertà di continuare a sognare ciò che la vita non sempre concede. Anche Maurice Mbikayi indossa i suoi «abiti tecnologici» – e ne lascia memoria attraverso le fotografie: Ndoto Ya Baba (letteralmente «Il sogno del muto») o Mulami Mushidimuka («il Pastore moderno») – consapevole di questa sua nuova nascita che gli permette di trovare la bellezza nella spazzatura tecnologica, quindi di esprimere questa esistenza-resistenza attraverso il bello.

Di Marcia Kure (Kano, Nigeria 1970, vive e lavora tra Princeton, NJ, Usa e Kaduna/Abuja, Nigeria), artista visionaria le cui opere sono state esposte anche in occasione della mostra Body Talk: Feminism, Sexuality and the Body in the Work of African Women Artists (2015-16) a Wiels – Contemporary Art Center di Bruxelles, Frac Lorraine (Francia) e Lunds Konsthall (Svezia), la curatrice sottolinea le doti di «attenta interprete di una ricerca incisiva e matura, che esplora i confini della natura umana». «Comprendere il mondo visionario di questa eclettica interprete – scrive Silvia Cirelli – significa capirne le scelte personali, perché è proprio nella componente autobiografica che troviamo le risposte a un processo creativo di esemplare unicità. In particolare, nella recentissima serie Of Saints and Vagabonds (2017), Kure combina insieme elementi ibridi che evocano colonialismo, reminiscenze hip-hop e tradizione pittorica delle donne Igbo della Nigeria orientale.

Scendendo le scale della galleria si entra in una dimensione sempre più viscerale, connotata da elementi esoterici a cui allude la ricerca di Dimitri Fagbohoun (nato a Cotonou, Benin nel 1972 è cresciuto in Camerun e attualmente vive tra Parigi, Bruxelles e Cotonou), in particolare nell’opera Adé (2015), dove il tubo al neon delinea la sagoma di una corona. Nella semioscurità si fa strada il suono ipnotico e reiterato delle percussioni che avvolge l’istallazione Les Patriotes (2012), dove i ritratti di leader politici africani sono impressi sulla superficie di pelle dei tamburi (djembe), che li connota anche con elementi di imperfezione.

Dimitri Fagbohoun, Fétiche à clous, 2015
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Fagbohoun, artista autodidatta, parla di contaminazioni. «Il mondo è organizzato come un corpo umano, con i suoi vari organi collegati l’uno con l’altro che cooperano. Le contaminazioni, le influenze tra i paesi avvengono viaggiando, ma anche stando fermi», afferma, parlando poi della sua identità personale. «Mia mamma è russa, o meglio ucraina, ma è stata in Africa per più di 40 anni. È più africana di me che sono nato in Benin, cresciuto in Camerun e poi mi sono trasferito in Francia. Mio padre è del Benin. La madre dei miei figli è una donna inglese cresciuta in Sudafrica, i miei figli sono biondi con gli occhi azzurri. Ma che vuol dire? Questo è il mondo in cui viviamo. Camminando per le strade di Milano, ho visto un negozio con l’insegna Kebab Gourmet. Il kebab a Milano? E per di più gourmet!».

Melting pot umano

Più che alla memoria, il suo processo artistico volge alla ricerca delle radici. Intuitivamente sceglie oggetti con cui ha una familiarità – maschere, feticci – liberandoli dal loro aspetto magico-rituale, per arrivare a infondergli un imprinting umoristico. Con estrema delicatezza si entra, infine, nel lavoro silenzioso e fortemente evocativo di Bronwyn Katz (Kimberley, Sudafrica 1993, vive e lavora a Cape Town). «Nel mio paese la storia precedente al colonialismo è stata cancellata – sostiene la giovane artista – ed è stata riscritta da quel momento in poi. L’identità dei sudafricani non contempla semplicemente la divisione di bianchi e neri. Ci sono neri, bianchi, colorati di provenienza asiatica. Divisioni che hanno condizionato la società stessa. Chi sei? Chi puoi amare? Quale può essere il tuo lavoro, il tuo futuro? C’è differenza, intanto, tra neri e persone che rappresentano il primo mescolamento tra il gruppo indigeno dei Khoi Khoi con gli Afrikaner, olandesi e altri europei di pelle bianca. La mia identità, in particolare, è abbastanza complessa. Una delle mie discendenze è Khoi Khoi, ma parlo l’afrikaans. La maggior parte dei gruppi indigeni non parla più la lingua originaria in quanto, quando furono ridotti in schiavitù dagli olandesi, furono forzati anche a comunicare in quella lingua.

Nello stesso tempo, chi arrivava da fuori era costretto a creare un distacco dal proprio passato. Nel mio lavoro il linguaggio è fondamentale. Mi interessano le tracce delle lingue originali dei miei antenati all’interno dell’afrikaans, una lingua che non è pura proprio perché deriva dall’olandese ma contiene in sé elementi dei vari dialetti locali. Generalmente, si pensa che l’afrikaans sia parlata solo dai bianchi, ma non è così. Nelle province del Capo ci sono molte persone che la usano nelle varianti dialettali».

Affrontare l’identità per Bronwyn Katz significa partire dal proprio spazio, in cui proietta il corpo per avere la conoscenza di sé. Nel video Grond Herinnering (Soil memory) esplora il rapporto tra dimenticare e ricordare, azioni che procedono parallelamente e che attraverso lo spazio riconducono la visione individuale a un’esperienza condivisibile.

Il paese dalla terra rossa

La voce dell’artista, che legge la lettera che le ha scritto sua nonna in afrikaans, accompagna i suoi movimenti isolati in tre diversi momenti. Il rapporto con la terra rossa, ricca di ossidi di ferro, è sottolineato dal vestito originariamente bianco, indossato dall’artista che si è tinto attraverso il contatto con il pigmento della terra. Ma c’è anche il gesto del prendersi cura della propria terra attraverso il suo corpo: «mi lavo i piedi con la terra rossa del mio paese». Katz ruota su se stessa lasciando che la gonna dell’abito si gonfi come un derviscio danzante. Un movimento catartico e rassicurante, come è il gioco che faceva da bambina – che scorre nel terzo schermo – una specie di «campana», dove lei salta i mattoni che, poi, spinge avanti. Continua a passarci sopra, spostarli, avanzare. «Il suolo è quello in cui si trovano i miei antenati. Anche per questo i luoghi fisici diventano una parte importante dell’atto stesso del ricordare», spiega. Anche la memoria del paesaggio appartiene alla ricerca di Katz in una chiave che è di denuncia, quando in Myne (2015) solleva la questione della violenza colonialista con cui, a causa delle miniere di diamanti, è stata sventrata la zona di Kimberly.

«L’idea coloniale dello spazio è di possesso – spiega l’artista passando ai disegni della serie Leestekens (Reading signs) – Dalla parte dei nativi, invece, c’è un’idea di convivenza con la natura, quasi di reverenza e di preghiera».

I disegni sono una sorta di trascrizione di segni antichi presenti su una roccia che, secondo la credenza locale, avevano il potere taumaturgico di far piovere. «Sono interessata a queste tracce contradditorie, da una parte la violenza sulla terra e dall’altra la forza delle impronte. Ho messo la carta a contatto con le iscrizioni, aspettando a lungo che la terra si asciugasse al sole».