La sensazione fisica della terra – anche nel significato di appartenenza ad un mondo in parte scomparso – è immediata quando si attraversa il campo, con l’erba alta fin quasi al ginocchio e i piedi che affondano nelle zolle umide. Tutt’intorno il verde delle colline toscane è ancora più intenso il 26 settembre, dopo una giornata di pioggia.

Il corteo funebre della Processione Omélia Contadina, con l’enorme salma-sagoma di carta attraversa il borgo antico, poi esce da San Gimignano per procedere in direzione Montauto e deviare nel sentiero di campagna. Accanto alla buca, la banda suona la marcia funebre mentre il drone ronza riprendendo la scena dall’alto.

Alla testa del corteo l’artista JR (classe 1983) documenta con il cellulare l’ultimo viaggio del contadino-simbolo poi, quando la sagoma viene deposta nella terra, scende con rapidità nella buca per risistemarla, accorgendosi che una folata di vento l’ha scomposta. Un gesto affettuoso come quello del contadino (vero) che è lì, sul bordo dello scavo: accarezza la testa dell’asinello bianco e, allo stesso tempo, lo tiene con fermezza per prevenire le bizze.

Altri contadini esprimono ad alta voce i loro timori rispetto alla distruzione del paesaggio agrario a causa dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici e della globalizzazione, concludendo il discorso con la frase “ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi”. E’ lo stesso messaggio di rinascita con cui si conclude l’“azione cinematografica” Omelia contadina realizzata da JR insieme all’amica Alice Rohrwacher e gli abitanti dell’Altopiano dell’Alfina. Il cortometraggio presentato alle Proiezioni Speciali della 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è in visione alla galleria Continua di San Gimignano, in occasione della mostra Omelia contadina (fino al 20 gennaio 2021), prima personale in Italia dell’«urban artivist» francese noto per i suoi giganteschi collage fotografici, portavoce dell’arte come strumento per cambiare il mondo.

Nella platea dell’ex cinema-teatro, sede della galleria, la sagoma femminile (Iris Pulvano) è sospesa nella semioscurità di una quinta scenica altrettanto suggestiva. Un lavoro intimo, al di là della monumentalità, che mantiene intatta la forza dirompente dell’impegno sociale dell’artista. «In tutto il mio lavoro c’è sempre ottimismo», afferma JR. Il percorso espositivo inizia con la documentazione dei numerosi progetti internazionali urbani e ambientali, tra cui Inside Out, Guns in America e il più recente Giants, peeking at the city.

A 15 anni salire con gli amici sui tetti di Parigi per lasciare traccia della tua esistenza attraverso la sigla con cui firmavi i graffiti, è stato il primo atto di «insubordinazione» ma ha significato anche la scoperta del potere dell’immagine. Così come della carta (prima le fotocopie poi la stampa blue back che si usa per i poster) e della colla…
Penso che sia arrivato tutto con naturalezza. Ho iniziato con i graffiti e il potere di scrivere il mio nome per dire che esistevo, per lasciare un segno nella società. Quando, poi, ho scoperto la macchina fotografica e ho iniziato a ritrarre gli altri artisti graffitisti, il modo più economico era usare le fotocopie. Questa è diventata la mia cifra, ma non nasce da una riflessione sulla fotografia. Non conoscevo niente di arte e fotografia. Attaccavo le fotocopie in giro per strada con il nastro adesivo, il passaggio naturale, quello successivo, è stato usare la colla. Naturale è stata anche l’idea di adattarmi all’architettura, alla strada, ai luoghi che avevano più senso. Ogni tappa ha portato allo sviluppo di un’altra: è ancora così.

Quelle fotocopie venivano «incorniciate» dal segno di vernice e quando l’immagine si perdeva, perché effimera, rimaneva il segno…
Per me era anche un modo per intavolare una discussione con la città. Infatti, quando l’immagine veniva tolta, tornavo per metterne un’altra all’interno dello stesso segno. C’erano anche posti dove di notte scrivevo «qui ci sarà presto un’esposizione di strada». Era un gioco con la polizia. Come dire vuoi venire? Sì, ma non sai a che ora! Era un momento in cui non facevo altro, di giorno e di notte, e la polizia mi cercava perché «esponevo» dappertutto a Parigi, agli Champs-Élysées all’Opéra… Tanto non mi prendi, questo era il gioco con la polizia.

Fin dalle prime fotografie scattate con la fotocamera compatta 28mm (trovata nella metropolitana di Parigi), usando il lingaggio del bianco e nero, hai scelto di raccontare storie seguendo delle regole precise. Il soggetto è inquadrato da vicino e ciò richiede empatia e fiducia tra chi sta davanti e dietro l’obiettivo, poi la fotografia, nella sua interezza o nel dettaglio che isoli (ad esempio gli occhi in Women Are Heroes), viene ingrandita per assumere una monumentalità fuori scala. In questo slittamento del rapporto vicino/lontano, prima con il soggetto e poi con i fruitori dell’immagine (che si moltiplicano in maniera esponenziale attraverso i social media) cambia anche il tuo ruolo?
Veramente l’uso del bianco e nero delle foto scattate con la mia macchina fotografica 28mm dipende dal fatto che sapevo che era economico e andava bene per tutto. Quando ho trovato il mio modo, ho continuato senza pormi domande. È anche un linguaggio che si confronta con la pubblicità nella strada e il bianco e nero è più forte. Nelle città, negli ultimi vent’anni, la pubblicità occupa gli spazi pubblici in modo sempre più aggressivo, così come artista ho pensato di fare la stessa cosa. La scala è veramente grande in rapporto all’architettura e al luogo, ma dipende dal luogo. Quando sono in Liberia, dove gli edifici arrivano al massimo a cinque piani, non ho necessità di creare un’affiche di venti metri come a Parigi o New York e qui a San Gimignano la sagoma di quindici metri che è nella platea sembra grande, ma nel campo non si ha la stessa percezione.

Il confine è un soggetto ricorrente, non solo come costruzione dell’uomo per sancire un determinato potere politico, anche come traccia invisibile di separazione. Hai realizzato progetti da una parte e dall’altra del confine, tra cui «Face 2 Face» (2007) con Marco Berrebi hai ritratto palestinesi e israeliani uniti dallo stesso mestiere, l’azione «Unframed» (2014) è stata realizzata a Ellis Island e «Kikito» (2017) a Tecate (Messico) lungo il confine Messico-Stati Uniti. Qual è la maggiore sfida nell’affrontare una tematica così complessa?
La tematica è complessa ma il viaggio è umano e molto naturale. Quando arrivo in un posto, essendo francese e non conoscendo molto della situazione locale – magari ho visto qualcosa in televisione, ma non sono un esperto – vado a bussare alla porta delle persone e chiedo cosa succede. Qui c’è il muro, come si fa? Con il mio passaporto posso andare da una parte e dall’altra del confine e con il punto di vista che mi creo, insieme al seme di un’idea si costruisce il progetto. Certe volte ci vogliono mesi, altre minuti. Parlo con la gente. Che pensi se metto una persona che guarda qui? Ah, una persona che guarda qui, interessante. È con questo tipo di conversazione che si sviluppa l’idea. Per esempio in Kenya, mi hanno fatto notare che con la pioggia le immagini stampate su carta non sarebbero servite a niente, invece se avessi usato il vinile – che non appartiene al mio linguaggio – avrebbe protetto il tetto delle abitazioni dalla pioggia.

Se la tua fotografia è «senza trucchi», il personaggio di JR (Jean René), «urban artivist» di cui difendi l’identità è in parte costruito attraverso la presenza costante di due oggetti: il cappello e gli occhiali con le lenti scure. Proprio gli occhiali sono legati a un momento trascorso con Agnès Varda durante i vostri vagabondaggi per i villaggi rurali della Francia con il furgoncino-sala posa, come i fotografi ambulanti di un tempo, durante la realizzazione di «Visages Villages» (2017). Come te, l’unica altra persona che aveva sempre gli occhiali scuri era Jean-Luc Godard, amico di lunga data della regista. Dato che avevi manifestato il desiderio di conoscerlo, lei decise di fare una deviazione a Rolle, in Svizzera, per andare a trovare Godard nella sua casa. Invece, che successe?
C’è tutto alla fine del film. Lui è lì dentro, ma non apre la porta di casa. La storia si conclude con Agnès e me che andiamo a parlare sul lago, lì vicino. Godard è così. Si conoscevano da tanti anni con Agnès. Lei non pensava che non avrebbe aperto la porta, ma è andata così. Nel film si vede Agnès che piange – è l’unica volta che succede nel film – ma riesce comunque a rimanere positiva.