Ha ragione Robert Fisk quando sottolinea l’irrazionalità del giudizio dell’Amministrazione americana che continua a considerare l’Arabia saudita un paese “moderato”. Eppure il sofisticato Barack Obama dovrebbe sapere (e lo sa), a differenza del suo poco istruito predecessore George W. Bush, che la legittimità religiosa del potere della famiglia reale saudita si fonda sul wahabismo, parente stretto del salafismo più radicale che ispira lo Stato Islamico in Iraq e in Siria (Siis) figlio di al Qaeda, giunto con i suoi mujahedin quasi alle porte di Baghdad. Il potere saudita, scrive Fisk, nutre con i suoi soldi e le sue armi il “mostro” nei deserti della Siria e dell’Iraq e riesce ugualmente ad ingraziarsi l’Occidente e ad ottenere la sua protezione. E ha ragione anche la rivista Foreign Policy quando ricorda che la devastante sconfitta che sta subendo da Nouri al Maliki è stata per anni il sogno del re saudita Abdallah che ha sempre visto nel primo ministro iracheno un burattino nelle mani del nemico Iran. E FP non manca di sottolineare che l’Arabia saudita si è rifiutata di mandare un ambasciatore a Baghdad e ha costantemente agito all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (il gabinetto di guerra agli sciiti delle petromonarchie sunnite) ad adottare la sua linea nei confronti dell’Iraq.

 

Solo una superpotenza cieca e ottusa come gli Stati Uniti può fingere di non sapere che i fondi provenienti da anonimi e generosi cittadini dell’area dal Golfo stanno finanziando la costituzione di quel califfato sunnita nei territori tra il nord e l’ovest dell’Iraq e la Siria orientale che ora sono sotto il controllo dello Siis. Tutti hanno visto le immagini con le lunghe colonne di pick up ultimo modello, trasformati in veicoli da assalto, con bordo i miliziani del Siis. E le domande sorgono spontanee. Chi ha dato ad Abu Bakr al Baghdadi i milioni di dollari necessari per equipaggiare e armare i 10 mila uomini ai suoi ordini e le decine di gruppi jihadisti e tribali che si sono uniti alla sua campagna militare? A Washington lo sanno bene ma restano in silenzio ad osservare lo scioglimento come neve al sole delle forze di sicurezza irachene che avevano addestrato investendo diverse centinaia di milioni di dollari. Ieri il Washington Post, stimava in 90.000 i soldati iracheni (in gran parte sunniti) che hanno defezionato rifiutandosi di combattere i “fratelli” impegnati nel jihad contro il governo dei “rafida” (gli sciiti) al servizio dei “Safavidi” (gli iraniani).

 

Le conferme a sospetti ed indiscrezioni, vengono in questi giorni proprio dal comportamento di re Abdallah. In vacanza in Marocco, è rimasto in silenzio e non ha commentato sviluppi che dovrebbero indurlo a un immediato rientro a Riyadh, visto che la crisi irachena avviene alle porte di casa. Lo Siis gli ha offerto una occasione d’oro per “tagliare la testa al serpente” iraniano, come dichiarò qualche tempo fa. Il leader della dinastia Saud si tiene lontano dalla “nemica” al Qaeda – così da non turbare gli alleati americani – e allo stesso tempo lascia che i suoi cittadini e quelli di emirati e monarchie del Golfo offrano generosi aiuti a gruppi di ispirazione qaedista che agiscono in Iraq e Siria. D’altronde la storia della politica estera saudita parla chiaro su questo punto: sostegno ai sunniti radicali all’estero e contenimento delle loro attività a casa. Non fu forse Riyadh, con il pieno appoggio della democrazia americana, a finanziare più di trent’anni fa la lotta armata di Osama bin Laden contro i sovietici e i “comunisti” al potere in Afghanistan? Non sono stati (anche) i sauditi a foraggiare l’addestramento (da parte pakistana) delle milizie Taliban poi entrate vittoriose a Kabul? Senza dimenticare le pie donazioni di anonimi sauditi alle scuole religiose più radicali da Tunisi fino a Islamabad. Il fatto che qualche mese fa il “re dell’intelligence”, il principe Bandar bin Sultan, sia stato rimosso dal suo incarico e, in apparenza, allontanato dalla corte su richiesta americana, non cambia la linea di un paese impegnato a combattere lo sciismo e le correnti affini con ogni arma disponibile e, allo stesso tempo, a salvaguardare gli interessi strategici di Washington in Medio Oriente.