Nei palazzi della politica, come nelle redazioni, fioccano interpretazioni sull’improvvida uscita di Giuseppe Conte a favore di un secondo mandato presidenziale per Sergio Mattarella.

C’è chi pensa che il premier stia cercando una strada per sbarrare la strada a Mario Draghi, avvertito sempre più come una minaccia, e chi invece è convinto che dietro la sortita ci fosse una malizia a doppio taglio: contro l’ex presidente della Bce ma anche contro un capo dello Stato in carica che potrebbe ambire alla riconferma.

Si tratta per lo più di fantasie.

Dal Colle si sono sì affrettati a chiarire che il presidente a restare in quel palazzo non ci pensa affatto e ritiene anzi che non sarebbe auspicabile ma minimizzano la gaffe del premier, attribuendola a una certa inesperienza.

A richiesta diretta su chi vedrebbe bene sul Colle nel 2022 e non avendo alcuna risposta da fornire, «Giuseppi» avrebbe pensato di cavarsela con eleganza adombrando la possibile permanenza di Mattarella. Senza rendersi conto che nel teatro italiano della politica certe uscite vengono poi sezionate, analizzate, caricate di significato, circondate da sospetti di manovre occulte.

E’ probabile che la versione minimalista degli ambienti quirinalizi si avvicini molto alla realtà. Sullo sfondo, però, campeggia comunque un problema molto meno innocuo.

La necessità di bloccare la marcia di un presidente “sovranista” è una delle voci in testa all’elenco delle motivazioni che hanno portato alla nascita di questo governo. Matteo Renzi sfoderò l’affilato argomento a ridosso dell’uscita di Matteo Salvini dal Papeete nell’agosto 2019. La ha rispolverata di recente.

E’ un discorso in parte tendenzioso, messo in campo come clausola per evitare le elezioni anticipate. Non a caso a martellare sul tasto è chi, proprio come Renzi, teme più di molti altri quello sbocco, che sarebbe per lui e per la sua Italia Viva in questo momento fatale.

Ma non c’è solo questo.

E’ evidente che la nomina di un capo dello Stato espressione essenzialmente dell’alleanza Pd-5S a un anno dalla fine naturale della legislatura coronerebbe quell’accidentato percorso o almeno, nella peggiore delle ipotesi, gli imprimerebbe una drastica accelerazione.

Il problema è che per eleggere un presidente che sia espressione di questa maggioranza i numeri non ci sono e non ci saranno. Nel calendario della politica il tempo che ci separa dalla elezione del prossimo presidente della repubblica, nella primavera del 2022, è un’eternità.

Quasi tutto può dunque cambiare. Non il responso del pallottoliere che rende impossibile il miraggio di un capo dello Stato a misura dell’attuale maggioranza giallo-rossa. Quello, con il rinnovo dei consigli regionali, può solo peggiorare.

In questo quadro la possibilità che a mettere in campo la candidatura quasi imbattibile di Mario Draghi sia la destra, magari, con una delle sue ormai abituali piroette, proprio Salvini, è allo stesso tempo concreta e temuta.

E’ difficile credere che il riflesso di quei timori non fosse presente, magari subliminalmente, al momento della gaffe di Conte.

Di certo, peraltro, era del tutto intenzionale, pur se maldestra, la frecciata contro Draghi azzardata dal presidente del consiglio con la rivelazione del suo tentativo di affidare all’ex presidente della Bce la guida della Commissione europea, progetto fatto fallire dalla parte in causa perché «stanco».

L’ipotesi di un presidente italiano della Commissione era del tutto fuori dalla realtà, anche a fronte di una candidatura Draghi. E’ impossibile che Conte non ne fosse perfettamente consapevole.

La malizia del passaggio sulla «stanchezza» era del resto palese. Giuseppe Conte ha insomma portato allo scoperto la paura di Draghi, direttamente collegata alla debolezza del suo governo.

La rete di protezione della maggioranza offerta dalla necessità di eleggere il presidente della repubblica, con questi numeri, è inconsistente. Il rischio che il governo scivoli non tanto su qualche scelta centrale ma su qualche imprevista bazzecola è innegabile.

L’ombra di Draghi, al di là delle sue intenzione reali, è dunque impossibile dissiparla. Quando Luigi Di Maio dichiara, come ha fatto ieri, che «Draghi è una risorsa per l’Italia» enuncia un’ovvietà assoluta. Ma nel minuetto pieno di veleni della politica italiana quella banalità assume i connotati di una stilettata rivolta al premier.