1938, l’Italia fascista firma le leggi razziali contro i cittadini italiani ebrei che vengono espulsi dalle scuole e dalle università, qualcuno inizia a fuggire da un paese ormai ostile come altri nell’Europa che sta per cominciare una nuova guerra, mentre sulle vetrine dei negozi appaiono i primi cartelli che fieramente rivendicano il proprio statuto di «negozio ariano». Eppure per moltissimi tutto sembra andare bene, gli italiani sono allegramente fascisti a suon di canzonette e di marce, di esercizi ginnici che forgiano il corpo dell’uomo nuovo, e di una generale confidenza in quel futuro del duce fatto di grandi opere come la costruzione di città laddove c’erano paludi e malaria. E persino nell’autarchia che si oppone alle parole straniere, ai francesismi, per esaltare la tradizione italica.

ANCHE sulla piazza della piccola città la vita scorre in apparenza senza sobbalzi: almeno così la vede dalla vetrina del suo ristorante Luciano, che ne è l’impeccabile gestore. Solitario reduce della Grande guerra, che gli ha lasciato una gamba zoppa e un po’ di medaglie che non ha mai sbandierato, da quel personalissimo «frame» osserva il mondo fantasticando forse sulle esistenze altrui; la sua ha poco da raccontare se non «lavoro, lavoro» ma le cose vano bene , il locale è pieno, l’uomo è attento e premuroso con ogni cliente e coi suoi dipendenti, e anche se si dice fascista – come appunto quasi tutti – si infuria quando il cuoco (Vincenzo Nemolato) fa battute contro il regime, e non per «fede» o per il timore che possono chiuderli ma perché si preoccupa per lui, che rischia di finire in galera. Lo stesso col vecchio professore cliente abituale (Antonio Salines, morto prima dell’uscita, a cui il film è dedicato) quando ascolta le sue critiche. Poi un giorno compare una ragazza, è bella anche con l’angoscia che le segna il viso, cerca lavoro, lui la prende, e fa bene perché Anna così si chiama è bravissima e presto diventa indispensabile. Giuseppe Piccioni torna a girare a Ascoli Piceno (il ristorante è il Caffé Meletti), la sua città laddove era ambientato il suo esordio, Il grande Blek, per un film che si confronta con la storia italiana attraverso il melò, e in una trama personale coglie il sentimento di un’epoca illuminandola con precisione grazie alla cura per i dettagli, per le sfumature che insieme formano una narrazione collettiva.
È dunque una storia d’amore L’ombra del giorno che nasce tra i due protagonisti – Riccardo Scamarcio anche produttore con la sua Lebowski e Benedetta Porcaroli – a cui viene negata però la libertà di essere vissuta, soffocata tra le costrizioni del momento, il fascismo, la guerra, i silenzi obbligati, e tutto ciò che trasforma (potrebbe accadere in ogni situazione, anche oggi) qualcosa di «semplice» come appunto innamorarsi in una condizione impossibile.
Su questa tensione lavora il regista – anche autore della sceneggiatura a insieme a Gualtiero Rosella, Annick Emdin, Marcella Libonati – trasferendo il mondo dentro al ristorante che nel suo microcosmo di clienti e impiegati si fa espressione del tempo, dei suoi conflitti, dei cambiamenti, delle attitudini di chi ne è parte. Lo sguardo di Piccioni rimane su questo bordo, il sottile confine invisibile della vetrina da cui osservano la realtà Luciano (Scamarcio) e Anna (Porcaroli) cogliendone secondo il punto di vista un significato diverso. E nel rapporto tra l’interno e l’esterno, di cui il primo assorbe le variazioni, costruisce la messinscena di un film che nonostante la curatissima ricostruzione d’epoca (scenografie di Isabella Angelini, costumi di Bettina Pontiggia, al montaggio Esmeralda Calabria) non è un film «storico», non nel genere tradizionale, e cerca invece di dialogare con una sensibilità contemporanea.

TRA I TAVOLI assistiamo al progressivo affermarsi del consenso, alla crescita della paura, all’esaltazione dei più giovani, quelli che si sono visti crescere, all’arroganza dei gerarchi in carriera (bravissimo Lino Musella), mentre lui, Luciano, pian piano inizia a spostare i suoi occhi, a guardare in modo strabico quelle immagini che gli sembravano belle, scorgendone invece col sentimento che lo lega alla ragazza le atrocità. Un film che per il regista è anche una scommessa, con cui ritrovare la propria poetica dei sentimenti e reinventarla nel confronto con una memoria resa attuale e vivida.