L’Inghilterra non conquisterà il Grande Slam. La prima giornata del Sei Nazioni 2020 ha consegnato questo primo incontestabile verdetto. Il XV della Rosa resta favorito per la vittoria finale ma la sconfitta patita domenica scorsa contro la Francia ha incrinato certezze e insinuato dubbi nei vice-campioni del mondo.

La sfida di domani contro la Scozia (17:45, DMAX) si annuncia dunque tanto complicata quanto decisiva per il futuro della squadra. Perdere a Edimburgo significherebbe per gli inglesi dire addio all’ambitissimo trofeo – una coppa di 200 once in lega d’argento rivestita d’oro al suo interno per proteggerla dall’acido dello champagne che ogni anno i vincitori vi riversano. Un’altra sconfitta imprimerebbe quindi il marchio del fallimento sull’intera stagione: secondi nel 2019, sconfitti nella finale mondiale, non è questo che ci si aspetta da una squadra che molti ritengono nata per vincere.

Per questo l’Inghilterra deve anzitutto rimettere le mani sulla Calcutta Cup. E’ il trofeo che dal 1879 viene messo in palio ogni anno in occasione della sfida tra le due nazionali: 270 rupie d’argento fuse per forgiare una coppa con tre manici a forma di cobra e un elefantino per coperchio. Fu regalato dal Calcutta Football Club alla federazione inglese, ed è uno dei più bei trofei del mondo. L’originale, causa i molteplici danni subiti nel corso del tempo, è custodito al sicuro in una teca del museo di Twickenham. L’ultimo oltraggio lo inferse lo scozzese John Jeffrey nel dopo-partita del 1988: ubriaco, il mitico “Squalo bianco” cominciò a lanciarla nello spogliatoio, ammaccandola e riducendola in uno stato pietoso. Fu scandalo. Jeffrey si beccò sei mesi di sospensione sebbene alcuni avessero addirittura chiesto la sua radiazione a vita. Cose di un altro rugby.

La Calcutta Cup è una sfida a sé. Ai fini del torneo la sua importanza varia di anno in anno ma per inglesi e scozzesi è un appuntamento dal quale non è dato transigere, non fosse che per quella storica rivalità che divide le due nazioni e che il tempo non ha mai scalfito. Ad aggiungere pepe al confronto c’è la Brexit. Buona parte degli inglesi sta festeggiando l’uscita dall’Unione Europea mentre gli scoti, fieramente schierati per restare, tornano a chiedere un referendum per l’indipendenza che Londra non intende concedere. Tira aria di battaglia.

Da due anni, grazie alla vittoria del 2018 e il pareggio del 2019, la Calcutta Cup (la copia) troneggia nella bacheca della Scottish Rugby Union. Lassù, sopra la linea di confine del Vallo di Adriano, faranno di tutto per lasciarla lì, sottovetro. Entrambe le squadre sono uscite sconfitte dal primo turno del torneo: la Scozia ha perso 19-12 a Dublino, l’Inghilterra è incappata in una sconfitta a Parigi che ha destato clamore e polemiche. La “caccia al pavone”, come gli scozzesi chiamano la sfida contro i rivali di sempre, si annuncia dunque rovente. Eddie Jones, l’allenatore degli inglesi che fa delle schermaglie psicologiche un tratto distintivo del proprio coaching, ha già dato fuoco alle polveri definendo gli avversari una squadra “irritante” e usa alla provocazione. Gli ha fatto eco Lewis Ludlam, terza linea del XV della Rosa: “Loro ci odiano e noi odiamo loro”. E’ solo pre-tattica o, invece, il match si è d’improvviso caricato di tensioni che molti davano per sopite? Lo vedremo quando le squadre scenderanno in campo in un Murrayfield che si annuncia tutto esaurito.

Sebbene i bianchi partano favoriti, sul piano tattico la partita è aperta. Sabato scorso, contro l’Irlanda, la Scozia non ha demeritato. Un buon primo tempo concluso con soli 4 punti di svantaggio, una ripresa più sfilacciata durante la quale Stuart Hogg e compagni non sono riusciti a imprimere il necessario cambio di passo. E’ stato come quando un pallone finisce in acqua e la corrente lo allontana da riva, e tutti lo guardano allontanarsi sempre più. Adam Hastings, schierato all’apertura, ha messo in mostra tutte le sue qualità, ma non c’è dubbio che alla squadra siano mancati i lampi di genio di Finn Russell che non sarà in campo nemmeno domani.

Sul fronte inglese il brusco tonfo di Parigi ha fatto molto rumore. La squadra è stata tacciata di presunzione e mancanza di alternative tattiche: uscito dopo un quarto d’ora Manu Tuilagi, l’apriscatole della squadra, il centro capace di sfondare, guadagnare metri e assorbire i difensori avversari, l’Inghilterra si è trovata in difficoltà e ha cominciato a perdere colpi proprio in quel confronto fisico nel quale avrebbe dovuto imporsi. Jonathan Joseph, il sostituto di Tuilagi, ha caratteristiche assai diverse: è abilissimo negli spazi aperti, a condizione di poter essere innestato; ma per farlo è necessario dominare punti di incontro e velocizzare i passaggi, cosa che contro la Francia non è quasi mai avvenuta. Anche per questo Eddie Jones ha scelto di cambiare. Nel ruolo di mediano di mischia, al posto dell’impacciato Ben Youngs, entra Will Heinz; in prima linea Mako Vunipola rileva Joe Marler; l’affidabile Kruis sostituisce Ewels in seconda; sul lato chiuso della terza linea Ludlam prende il posto di Lawes.

A Dublino (15:15, DMAX) va in scena Irlanda-Gales. Sabato scorso i padroni di casa hanno battuto i cugini scozzesi senza entusiasmare. Tutti i punti irlandesi, compresa l’unica meta del match, hanno portato la firma di Jonathan Sexton, e molti si chiedono fino a quando il trentaquatrenne mediano di apertura potrà sopperire alle lacune di una squadra che sembra aver perso lo smalto delle passate stagioni. Dovendo fare a meno degli infortunati Gary Ringrose e Caelan Doris, la scelta di Farrell si indirizza sull’”usato sicuro”: entrano Robbie Henshaw e Peter O’Mahony. Nel Galles, che una settimana fa ha agevolmente disposto dell’Italia e ora occupa la prima posizione grazie al punto di bonus, un solo cambio, quello del sulfureo Nick Tompkins al posto dell’ala Johnny McNicholl.

Domenica tocca all’Italia, attesa da una pimpantissima Francia allo stadio di Saint Denis (16:00, DMAX). Gli azzurri sono usciti triturati dal confronto con i gallesi di una settimana fa: 42 a 0, non una meta, non un calcio piazzato, grandi difficoltà nei break down e nelle fasi di attacco. Sterilità assoluta. Un solo cambio, quello di Jayden Hayward nel ruolo di estremo con lo spostamento di Matteo Minozzi all’ala al posto di Leonardo Sarto.

È una sfida che non pare lasciar scampo alla nazionale italiana. La Francia ha brillantemente battuto gli inglesi nel match di esordio mettendo in luce un manipolo di giovani dal futuro luminoso, un gioco convincente, una difesa agguerrita ed estremamente disciplinata – decisivo l’arrivo nello staff dei coqs di Shaun Edwards, forse il miglior specialista della difesa nel rugby moderno. Tutti i pronostici danno i transalpini – che nella storia del Sei Nazioni l’Italia ha battuto due volte, nel 2011 e nel 2013 – vincenti con ampio scarto di punti.

È opinione diffusa che il Sei Nazioni sia ormai divenuto un torneo con cinque squadre in lotta per il titolo e una sesta, l’Italia, a recitare la parte dell’invitato di rango inferiore. Un avversario che va preso nella giusta considerazione quando lo si incontra ma che difficilmente può competere per la vittoria. Rispettato ma non temuto. La miglior squadra di una seconda fascia virtuale del rugby che, per meriti acquisiti sul campo un paio di decenni fa, è stata invitata a frequentare il piano nobile. Per un po’ se l’è cavata regalando qualche episodica soddisfazione, poi ha cominciato a scivolare lungo un piano inclinato del quale non si vede la fine. Con il passare degli anni più gli altri cinque inquilini progredivano, più l’Italia è rimasta immobile (o è arretrata); più i mobili, l’arredamento, gli stucchi del palazzo del rugby professionistico divenivano sfarzosi, più il nuovo arrivato si è sentito in difficoltà e, guardandosi allo specchio, si è scoperto inadeguato. Sembrerebbe una favola un po’ triste ma questo è quello che è accaduto. E il lieto fine non è per nulla assicurato.