Dall’alto della passerella che unisce idealmente il vecchio quartiere del Panier al modernissimo Mucem l’azzurro di cielo e mare si schianta sul bianco delle grosse navi ormeggiate al porto. Il museo con accanto la Villa Mediterranèe, progettata da Stefano Boeri, è stato inaugurato tre anni fa, nei progetti di Marsiglia capitale europea della cultura, seguendo la geografia «ideale» di un Mediterraneo nel quale si incontrano Storie, Paesi, popoli, conoscenze. E dove pure i conflitti delineano un paesaggio comune di esperienze e responsabilità.

Suona un po’ retorico di fronte alla politica francese sui migranti espressa dal governo Hollande, e a una diffidenza che va al di là del controllo delle borse all’ingresso e della presenza costante di poliziotti che percorrono la città come vuole il piano Vigitpirat sicurezza anti-terrorismo sempre a livelli massimi. Però Marsiglia, immersa nella Provenza di spezie, menta e lavanda è una città mediterranea: immigrazione italiana, comunità vastissima nordafricana e africana, dal porto rinnovato anch’esso con ardite operazioni di gentrificazione (compreso il «maquillage»umano di espulsione dei più poveri dalle case ora rilanciate di prezzo) partono le navi per Algeria e Tunisia… Come poi funziona questo Mediterraneo è sempre più difficile capirlo.

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Ci penso mentre attraverso la passerella nella canicola implacabile di mezzogiorno (gli architetti non sempre, forse quasi mai, legano ambizioni progettuali ai luoghi). Ho appena visto O Pintor e la Cidade (Il pittore e la città), un cortometraggio splendido di Manoel de Oliveira a cui il Fid dedica la retrospettiva della sua 26a edizione. Dallo scorso anno il festival diretto da Jean-Pierre Rehm si è installato al Mucem, e pur senza abbandonare altre sale storiche più centrali, concentra il suo cuore qui.

Era del resto inevitabile visti gli investimenti nel nuovo polo cittadino dell’amministrazione locale che ora sta cercando di lanciarlo al di là delle visite turistiche, di radicarlo cioè nelle abitudini della città. I risultati? Funzionali senz’altro. Gli ospiti si ritrovano lì (ma le sale di proiezione non sono un granché), si crea una comunità festivaliera, è stato allestito un tendone per mangiare e bere proprio davanti al Mucem, insomma sembra di essere sospesi in un astronave bellissima e aliena da cui il resto appare un po’ lontano. Il «resto» ovvero Marsiglia, le sue strade sporche e chiassose, il mercato, i piccoli caffè coi dolci arabi e il the alla menta (che io continuo a preferire, diciamo che l’impressione è come quando durante il festival di Roma ci si confina all’auditorium ma meglio perché almeno qui c’è il mare). E questa è la scommessa. vedere cioè come funziona la nuova sistemazione col pubblico locale e non solo con gli accreditati che seguono numerosi il festival sempre più riferimento glamour di tendenza.

Torniamo a De Oliveira. Cosa dipinge il suo pittore quando posa il cavalletto che somiglia a un banco ottico – come lui ricorda col suo impermeabile chiaro appena sgualcito il regista anche se rimanda al grande acquarellista Antonio Cruz? La città di de Oliveira, Porto, in cui si muove, flaneur discreto, nella giornata seguendo gli operai che all’alba entrano in fabbrica e il treno che soffia nella stazione (vedute Lumiere?). Lungo i suoi passi troviamo i segni di un passato e di una Storia più lontani, e quelli della modernità che scandisce il ritmo di questa sinfonia urbana. Tram, ferro, semafori, gente che fugge indaffarata. Ma anche istanti improvvisi di stupore, l’anziana signora ferma nella strada deserta, come in una stampa di altri tempi, il fiume che ha visto i secoli, le barche col loro incedere lento.

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Lui, il pittore osserva, e lascia andare leggero il pennello sul foglio, ma di quello che vediamo rimane una suggestione, un gioco di colori tenui, la forma di un’idea e di un’essenza personalissime. Gli stessi che cerca la macchina da presa di de Oliveira, perché come ci dice in quel magnifico film lasciato postumo per sua volontà, Visita, proiettato la prima volta dunque solo qualche mese fa (anche se è del 1982), la realtà esiste solo attraverso la narrazione, nel potere del racconto e di una messinscena. Una dichiarazione teorica che in qualche modo il Fid Marseille di Jean-Pierre Rehm (anche godardianamente) ha fatto sua nelle scelte di un programma «documentario» che della realtà cerca piuttosto le zone ambigue, i chiaroscuri, i passaggi meno evidenti.

Dalla Porto di De Oliveira, punteggiata dalle sue passioni letterarie e dalla sua personale storia del cinema, arriviamo al frammento fiorentino che Jean-Claude Rousseau cattura dalla terrazza del bar. La cupola fiorentina e le figure che si succedono nella giornata per farsi rapire dalla vista. Turisti in coppia che si fotografano, due si baciano con passione e poi si scattano un selfie, le amiche chiacchierano, le voci rimangono lontane. Nel mezzo il regista conversa col giovane cameriere che gli racconta le difficoltà avute per ottenere il permesso di soggiorno in Italia.

Un semplice fluire di eventi, una giornata come altre, l’intreccio di infinite storie possibili: dalla finestra della sua casa il regista esce fuori mantenendo l’intento di un’osservazione per appunti (alla Pennac) della vita.

https://youtu.be/zHf7rUhUPOw

Racconta Rafak Alzakout che quando ha iniziato a lavorare al suo primo film, Home, Casa, di certezze ne aveva poche. Soprattutto voleva dare voce al «dopo rivoluzione» in Siria, a chi come i suoi giovani protagonisti aveva combattuto contro il regime di Assad e ora sentiva finalmente di poter parlare senza il terrore di finire in galera e sotto tortura, e con la libertà di occupare le strade, i luoghi pubblici. Artisti, poeti, danzatori, combattenti. Col loro teatrino di burattini inventano fiabe rivoluzionarie per i bimbi di Manbij, una cittadina nel nord della Siria, a pochi passi il rumore pesante della guerra e delle bombe governative. Sembra secoli fa, eppure.

Man mano che lo scontro si alza, il gruppo si rifugia in una casa, il regista è divenuto parte del film, la sua sfida parlare al telefono con il suo amore lontano, di notte quando la luce elettrica va via – a volte per giorni – in giardino brilla l’arancio dei cachi. Se ti vesti di nero ti prenderanno per un miliziano straniero, se tieni il tuo maglione rosso capiranno che sei un turista gli dicono gli altri prima di andare insieme alla moschea.

Nelle notti, tra loro, in un paesaggio senza donne, si parla di sogni e paure, ogni tanto arriva qualcuno dal fronte, a volte un ferito, una volta un militante dell’Isis. Il regista confida a se stesso di non capire… Ma: come spiegare la guerra in Siria da cui fuggono a migliaia profughi di questi mesi? Alle ragioni storiche e geopolitiche accumulate nel tempo Alzakout preferisce un quotidiano sospeso in cui la guerra nella sua rappresentazione rimane sui bordi dell’inquadratura. E prende forma con violenza invece nel tempo di attesa, sul crinale aguzzo di desideri per un futuro e di morte, e tra le contraddizioni che nessuno di chi lo vive ha voglia di spiegare. Il presente impossibile di una rivoluzione che sembra non avere diritto di esistere.