Scrivere non è mai neutro. Questa la prima impressione dopo la lettura di Quella febbre sotto le parole, un prezioso librino a cura di Maria Rosa Cutrufelli (iacobelli editore, pp. 111, euro10,  introduzione di Anna Maria Crispino).

A comporlo sono dodici testi di altrettante scrittrici che avevano risposto alla rubrica «Scrivere» della storica rivista Tuttestorie (marzo 1990 – maggio 2001), diretta dalla stessa Cutrufelli che ne ha condiviso il primo progetto con Rosaria Guacci e Marisa Rusconi.

Nei brevi e intensi quadri ad affiorare sono alcuni punti che restituiscono il profondo lavoro relazionale e incarnato. Sia che si tratti della storia – come nel caso di Luce D’Eramo – sia della «lontana e stretta parente sconosciuta» evocata da Alice Ceresa; anche per due  tra le scrittrici più agli antipodi dell’antologia, la tessitura sessuata e «intersoggettiva» è piuttosto palpabile.

Come si scrive, dunque? Cosa succede quando una scrittrice si mette al lavoro? Che legame esiste, se esiste, tra la parola e un corpo che è anzitutto sessuato? Molte sono le domande a cui implicitamente rispondono le scrittrici, rappresentazione complessa di una parabola non ancora conclusa.

Sono importanti i nomi scelti da Maria Rosa Cutrufelli, lei stessa con un’attività di scrittura che in questi anni, oltre ad averla portata a numerosi riconoscimenti pubblici, si è collocata politicamente nell’orizzonte ampio e generoso del femminismo. In particolare, di ciò che 40 anni di pensiero e pratiche hanno significato e contaminato all’interno della critica femminista. Nello stabilire cioè cosa si intenda per quel punto – che non è di rifiuto ma neppure di rivendicazione di esclusione – rintracciabile nell’«oltrecanone» (tra l’altro titolo di un volumetto inaggirabile curato da Anna Maria Crispino, pubblicato per la prima volta nel 2003 da manifestolibri e da iacobelli editore nel 2015).

Puntellata la scena di una genealogia intravista proprio da qui, dai testi delle scrittrici al lavoro, e non da un altrove imprecisato e straniero, verrebbe da chiedersi in che modo entrare oggi nella fucina della scrittura possa servire. Sia a chi legge che a chi scrive. A ben guardare, sembra ancora rispondere a un guadagno il rendere conto  della differenza sessuale. E non solo perché a farlo sono  i nomi splendenti di Alice Ceresa, Clara Sereni, Francesca Sanvitale, Luce D’Eramo, e ancora quelli di Francesca Duranti, Elena Gianini Belotti, Romana Petri, Marisa Volpi, Gina Lagorio, Lia Levi, Rosetta Loy e Grazia Livi.

Quella febbre sotto le parole racconta che l’esorbitanza è capace di una grammatica cesellata; scoprirne il laboratorio di esperienza al cui centro non possono che esserci i corpi e un simbolico minuto che si intuisce e fortifica – più o meno consapevolmente – torna non solo utile ma fondante.

Nonostante la diversità – di formazione e intendimento – di ciascuna delle intervenute, alcune parole ritornano: «gestazione», «prodigalità», «materia della vita», «flusso». Una mappa sensoriale per dodici testi belli e potenti che ci ricordano la qualità dello scrivere. E il perché non sia mai neutro.