Dopo il magnifico Paradiso e inferno (del 2010, apparso in italiano nel 2011), le cui vicende si prolungano nella Tristezza degli angeli (edizione italiana del 2012), Jón Kalman Stefánsson conclude la sua trilogia con il recente Il cuore dell’uomo (Iperborea, traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini, pp. 320, euro 18,50), ambientato come i precedenti in un’Islanda di più di cento anni fa. L’andamento sinuoso della narrazione, da corrente marina, non si lascia facilmente sintetizzare, ma certamente i fili dei destini incontrati nei primi due episodi si riannodano in questo terzo volume. Al centro – come nota Alessandro Zironi nella sua postfazione – non è tanto «un paesaggio islandese ormai oleografico in cui il lettore è in grado di proiettare ciò che già conosce di quell’isola vagheggiata», quanto l’uomo, o meglio «le interconnessioni tra le anime (…) la forza dei legami tra uomini e donne che si tengono aggrappati come possono a un’esistenza spesso feroce, talvolta colta con ironia.»

Al centro di questa rete di relazioni è ancora e sempre «il ragazzo» (non sarà mai chiamato altro che così), orfano e senza nome, «una ferita aperta nell’esistenza», lettore e amante della poesia, inesperto e dotato di una sapienza misteriosa. Nel primo libro ha perduto il suo unico amico, Bárdhur ucciso dal suo amore per la poesia e in particolare per Milton, distratto dal quale ha dimenticato di equipaggiarsi adeguatamente per una fatale traversata in mare. Nel secondo volume, sorpreso da una terribile tempesta di neve insieme al postino Jens, è il ragazzo stesso a rischiare la vita attraversando i monti per accompagnare la bara di una donna alla sepoltura.

Il terzo episodio comincia esattamente dove s’interrompeva il secondo: il ragazzo e il postino Jens si risvegliano in casa del medico di un piccolo villaggio situato ai piedi del burrone nel quale erano precipitati. Il ragazzo non sa se è vivo o morto, rimane sospeso a lungo fra uno stato e l’altro. «Hai deciso se vuoi vivere o morire? Gli chiede la donna, o meglio la ragazza. Ha i capelli rossi, i morti hanno i capelli rossi. Non lo so, risponde, non sono nemmeno sicuro che ci sia, una differenza.» Tanto più che tutt’intorno, in questo libro come nei precedenti, aleggia un coro di morti «che non se ne possono andare» trattenuti accanto ai vivi dal «rimpianto di non aver vissuto abbastanza». «La scrittura dev’essere qualcosa tra la veglia e il sogno, legare il razionale con l’intangibile» ha detto una volta Jón Kalman Stefánsson, e nelle prime pagine di questo libro quella poetica si fa rappresentazione.

Con il passare del tempo, i convalescenti riprendono le forze al ritmo della natura, che passa dall’ostile inverno alla primavera, in cui si può fare «un passo fuori senza mettersi in pericolo di morte.» E le relazioni tra gli uomini possono ricominciare. Viene in mente ancora l’immagine della corrente, che avvolge e trascina con sé la nutrita galleria dei personaggi, che anche in questo libro viene incontro al lettore. Alcuni vengono per precisare la loro storia, altri emergono, per la prima volta tra queste pagine, come isole. Personaggi in carne e ossa e personaggi che vivono nel pensieri di altri personaggi. Come le molte figure femminili, che sembrano successive incarnazioni del desiderio del ragazzo e a volte sembrano vivere soprattutto in quello, come la ragazza dai capelli rossi. All’opposto c’è la concreta e indipendente Geirthrudhur, che gestisce da sola la locanda, «una donna in un mondo di maschi. E c’è l’amante di lei, il capitano John, anche lui morto per disattenzione, perché come «uno pensa troppo alla poesia, dimentica la cerata e muore di freddo», così «uno pensa troppo a una donna (…) e per questo non presta attenzione al fatto che la stiva non ha zavorra, la nave si capovolge, e gli uomini e il gatto annegano».

C’è Snorri, il commerciante fallito e c’è Tryggvi, l’uomo d’affari di successo, «che fa i passi più lunghi degli altri» e nelle cui mani tutto si trasforma in oro. L’uomo che porterà al villaggio il progresso e la modernità (guadagnandoci moltissimo), ha fatto installare una linea telefonica e si è comprato un piroscafo grosso e potente per non dipendere più dal vento, «è come se avesse trionfato sulle forze della natura». E ancora altri che, benché appena schizzati – come nella scena di cui è protagonista un contadino che vende uova di pulcinella di mare ai marinai appena sbarcati – risaltano nitidi e vivi.

Un mondo arcaico e una scrittura senza tempo – premoderna, ha scritto qualche critico, come anteriore al grande conterraneo Laxness, che pure Jón Kalman Stefánsson ha sempre indicato tra i suoi modelli letterari.

Modelli che, da Ulisse (di certo il parallelo più esplicito e produttivo) a Milton, non sono solo dichiarati, ma trasformati in rappresentazione: principi dinamici della narrazione, o ritratti tra le mani di personaggi nelle ore assorte della lettura, come i lettori di Rilke nel Malte Laurids Brigge: «Puoi avvicinarti a uno e toccarlo: non si accorge di nulla. E se alzandoti urti un poco il vicino e ti scusi, accenna col capo verso la parte da cui ode la voce e il suo volto si gira verso di te e non ti vede, e i suoi capelli sono come i capelli di un dormiente.»

Come accade per ogni scrittura radicalmente originale, i libri di Jón Kalman Stefánsson richiedono al lettore una partecipazione attiva e consapevole – resa possibile dalla traduzione precisa e trasparente di Silvia Cosimini – una «non facilità» che segna ogni ingresso in un territorio inesplorato perché, come assicura l’autore stesso, la letteratura crea territori nuovi, non solo nella mente ma anche sulla carta geografica.

Il fatto che il senso ultimo sia affidato alla parola non va però confuso con una fiducia ingenua nel potere comunicativo del linguaggio: al contrario, perché «come si fa a capire un altro, anche se si esprime nella tua stessa lingua? È possibile capire i pesci quando li estrai dal profondo del mare, è possibile capire le pecore (…), è perfino possibile capire il mare, ma come si fa a capire qualcuno che per un attimo è come un pesce, e l’attimo dopo come una farfalla?»

Infatti non ci si capisce. Non ci si capisce e tuttavia – questo apprende il ragazzo alla fine del suo viaggio – si può provare empatia, sperare che la vicinanza sostituisca la presunta e improbabile comprensione attraverso le parole. E sostanzi di sé quello che «lanciamo con tutte le nostre forze nel mondo dell’imperfezione».