«Birra e salciccia…», la parola d’ordine segreta con la quale Totò doveva farsi riconoscere in Totò sceicco per l’arruolamento nella Legione straniera, viene fatta seguire da un occhiolino bilaterale, segno di un significato intelligibile solo a chi ne conosce il codice. Senso nascosto che, ovviamente, non viene decifrato da Carlo Crocchiolo, giovane ed ebete garzone della bettola portuale, che si limita stolidamente a riferire lo strano comportamento del cliente, interpretato dal padrone come una semplice richiesta di raddoppio della porzione di… birra e salciccia. Qualche decennio dopo, dalla tolda della sua nave spaziale Arcadia, fatta di antimateria oscura, un altro gentiluomo di fortuna, Capitan Harlock, guarda il cosmo attraverso il suo unico occhio scoperto, l’altro essendo occultato da una benda nera.

L’occhio di Satana
Ora ci si potrebbe chiedere da dove nasce il gesto di fare l’occhiolino, e che connessioni ci sono tra questo e la benda sull’occhio, propria non solo di Capitan Harlock ma di una intera genealogia di pirati e avventurieri, basti pensare a Jena Plissken, (chi non ricorda la famosa battuta: «chiamami Jena»…) di 1997 Fuga da New York o a Nick Fury dello S.H.I.E.L.D. o al John Wayne de Il Grinta. In realtà, sia il gesto ammiccante sia la benda sull’occhio, hanno ascendenze mitologiche articolate e precise che si ritrovano in diverse culture con archetipi sostanzialmente analoghi.

Il punto di scaturigine comune di questa momentanea o parziale cecità, a prima vista (è il caso di dirlo) è paradossalmente quello della veggenza. Qui come veggenza si intende la capacità di vedere l’essenza immutabile delle cose e dunque poter anche anticipare gli avvenimenti (preveggenza). Ecco dunque che questo vedere risiede nella capacità di percepire non con la vista sensoriale, ma con lo «sguardo dell’anima». Ad indicare questa visionarietà simbolica Platone usa il termine «ópsis», che vuol dire a un tempo «occhio e sguardo», in altre parole il «vedere agente»; e così, attraverso l’ópsis, ciò che è immerso nell’oscurità diventa esperibile sotto forma di simbolo.

E allora, per capire le radici della veggenza e dei suoi simboli, tra i quali l’occhiolino e la benda mistica sull’occhio, dobbiamo partire dal suo opposto, cioè da una visione ad occhi perennemente spalancati: dalla fissità dello sguardo. Ecco, allora, come «due occhi fissi sull’oscurità immobile» vengono considerati, ad esempio nel sufismo iranico, quelli dell’Antagonista, privati per questa loro caratteristica del conforto dei «profondi soffi dell’eternità». A questo proposito è interessante notare come in questa tendenza dell’esoterismo islamico si dice che «Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò che lo spaventa è vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non rischiare di vedere questa luce, che si manifesta solo ad occhi chiusi, come ogni fotismo spirituale, egli non chiude mai gli occhi, come opportunamente ci ricorda Henry Corbin nei suoi studi sull’uomo di luce nel sufismo iranico.

Un’immagine fantasy dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien che Saruman, durante una discussione con Gandalf, descrive come «sempre spalancato, senza palpebre, avvolto nelle fiamme». Lo vediamo dunque sulla sommità del monte che incessantemente scruta il territorio alla ricerca dell’Unico Anello del dominio, quello che verrà poi distrutto a Monte Fato da Frodo insieme a Gollum, l’hobbit che si è progressivamente trasmutato in un demone accecato dal suo potere. Saranno i suoi compagni della Compagnia dell’Anello, che ingaggeranno una impari battaglia con le forze del male proprio per distrarre l’occhio dalla sua ricerca inesausta. Quando il destino dell’anello sarà compiuto, disciolto nelle fiamme del vulcano, anche l’occhio malefico si spegnerà e con lui tutti gli esseri malvagi creati dalla sua necrocrazia.

La veggenza
L’assunto è quindi quello che la luce delle cose si coglie meglio ad occhi chiusi; una metafora che in fondo possiamo esperire nel quotidiano quando fissiamo direttamente il sole: se sfidiamo la sua luminosità, di quella visione ad occhi nudi non rimane che una macchia oscura. L’essenza della sapienza è dunque «invisibile alla vista», come dice il Piccolo Principe; ed è proprio questo mistero gnoseologico, la tensione verso un potenziale svelamento e la sua esperienza, che fondano l’arcano della benda (velamento) e dell’occhiolino (chiusura dell’occhio), come vedremo: chi si avventura, seppure per un momento all’interno di questo buiore momentaneo ed autoindotto, dicono gli antichi, ritrova ed esprime un significato nascosto o, come intuisce Goethe, ci si sofferma quando la chiarezza esaurisce le proprie risposte; basti pensare a quante volte si chiudono gli occhi per riprendere il dominio di sé.

«C’è una grande differenza, se mi spingo dalla chiarezza verso l’oscurità oppure dall’oscurità verso la chiarezza; se, quando la chiarezza non mi promette più nulla, tendo ad avvolgermi con una certa oscurità o se, convinto che il chiaro si basa su un fondamento profondo difficile da esplorare, mi adopero tuttavia per trarre il possibile anche da questo fondamento, ancorché difficilmente esprimibile».

Analogamente, evitare che l’accecamento insito nelle forme del divenire potesse impedire la percezione della loro comune essenza, era lo scopo e la caratteristica dei veggenti dell’antichità classica: nella Tragedia greca, infatti, troviamo in Edipo e Tiresia le figure emblematiche dell’uomo immerso nell’oscurità del sensibile per poter riacquistare la visione dell’intelligibile. Anche Omero, «il più saggio tra i greci» secondo Eraclito, sarà cieco. Veggenza (óran to afanés) significa, dunque, letteralmente, «vedere l’oscurità»: non semplicemente vedere nell’oscurità ma coglierne l’essenza stessa; e questa è sapienza, perché in essa si coglie il limite estremo ed ineludibile, ma allo stesso tempo glorioso, dell’esistenza umana: la morte. La visione nell’oscurità si sovrappone così a quella della sapienza, è la sapienza stessa ma, come per Edipo e la Sfinge, svela il suo enigma solo ad uno sguardo che ha come intento la verità sull’essere ultimo del veggente.

Il fabbro alchimista
A questo punto possiamo introdurre, per così dire, l’archetipo dell’individuo con le benda sull’occhio, che non è un pirata, bensì una figura oramai pressoché scomparsa: il fabbro che protegge l’occhio con una benda nera. In alcune culture ancora fortemente tradizionali, nelle quali cioè tutti i gesti quotidiani sono la rammemorazione di quelli compiuti in origine dagli antenati fondatori, com’è o dovrebbe essere proprio di ogni civiltà che abbia ancora un qualche senso spirituale, la figura del fabbro è centrale. Chi opera sui metalli, infatti, opera sul corpo stesso della terra, cioè degli elementi dei quali è formato lo stesso corpo umano. Dunque nelle pietre, nei metalli, nella loro composizione e scomposizione, è racchiuso il segreto della vita, una serie di arcani trasmutatori che mostrano il continuo trapasso da una forma ad un’altra; chi possiede questi segreti, come gli alchimisti, comprende i fondamenti dell’esistenza perché, semplicemente, la accompagna, la assiste, la cura, trasmuta con le cose.
Per vedere configurate concretamente queste visioni ci si può ancora spingere, con molta umiltà, alla soglia di una fucina Dogon.

Qui vedremo ancora il fabbro ergersi dinanzi all’incudine come fosse un officiante di fronte ad un altare, e di fatti lo è, poiché il fuoco che gli divampa dietro, nella forgia, alimentato dai quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco, è il risultato di una attenzione costante alle loro intime relazioni. Per creare il fuoco, inoltre, egli ha dovuto scegliere il legno adatto, e dunque incantare l’anima delle piante con melopee lente e tortuose, come le loro radici. Poi, una volta accesi i carboni, è stata l’aria ad alimentarli, pompata dai mantici, mentre solo l’acqua ha potuto temprare la terra metallifera, come se il fuoco incandescente della fusione fosse stato imprigionato, mercé il suo potere fluido, nel metallo stesso.

E dunque, quando il fabbro ritrae incandescente il ferro e lo depone sull’incudine, egli deve rapidamente dare forma al quel fuoco con i suoi battiti ritmati, mentre il metallo sprigiona scintille, come piccole comete, ricordando comuni origini celesti. Da questo l’antico nome greco delle stelle (sideros) e dell’arte metallurgica (siderurgia). Ecco che dunque egli porta sull’occhio una benda nera, a protezione. Ma questa benda, oggi sostituita dagli occhiali a lenti di un blu profondo, oltremarino, che mantengono per certi versi intatto lo stesso fascino arcano della benda nera, non serve solo da protezione, ma da lente attraverso cui vedere l’anima dei metalli. Dall’altra parte, alla polarità opposta, troviamo gli occhiali totalmente neri, da iettatore appunto, che Pirandello descrive come componente fondamentale della sua vestizione nella Patente; anche qui l’interpretazione di Totò è superlativa. Estrema propaggine di questa genealogia delle lenti è certamente il fascino che ancora esercita il monocolo o caramella, che di fatto per essere portato costringe l’occhio ad una potenziale occhiolino permanente. L’occhio che guarda al divino è dunque benevolo, mentre è funesto quello che guarda invidiosamente il mondo o semplicemente che ad esso guardi (in videns).

Tornando a Capitan Harlock e alla sua benda nera, non dimentichiamo che egli è il solo a poter governare l’Arcadia, la cui costruzione è un arcano di segreti orami perduti per l’umanità; costituita da materia oscura, dunque corrispondente alla prima fase dell’Opera alchemica, l’Opera al nero, essa è soprattutto animata da uno spirito che la dirige e si fa dirigere da lui perché entrambi sono mossi dagli stessi ideali di giustizia. Ancora una volta, l’operatore opera la materia operata tanto quanto essa opera sull’operatore.

L’occhiolino divino
L’occhiolino ha origini apotropaiche ancora più lontane nel tempo, risalenti alle prime civiltà organizzate, come quella egizia. Qui troviamo l’Occhio di Horus, l’Occhio divino, la fiamma del quale annienta il Male chiudendosi e riaprendosi sul mondo; e l’occhiolino non è forse ancora oggi un gesto apotropaico? Non serve a stabilire un legame occulto tra chi lo agisce e chi lo osserva?

Nell’antico Egitto, ma anche nelle mitologie Vichinghe ed Irlandesi arcaiche, troviamo dunque l’originale dell’occhiolino come gesto che, al tempo stesso, vuole riprodurre la collera del dio o la sua magnanimità. Anche nell’induismo vive l’idea cosmogonica che Brama apre e chiude gli occhi su un universo sempre differente. D’Altronde, sintetizza Borges nella sua Storia dell’eternità: «Se l’occhio del Signore si distraesse un solo secondo da questa mia mano destra che scrive, essa ricadrebbe dal nulla, come fulminata da un fuoco senza luce».

In tutte queste mitologie troviamo dunque il gesto, non solo espresso singolarmente, ma inserito nel complesso di gesticolazioni magiche attraverso le quali si voleva diventare l’icona stessa del dio che apre o chiude l’occhio dispiegando il suo terribile potere. Nell’Egils saga ad esempio, ci ricorda Elémire Zolla, si narra di un eroe vichingo che stronca il coraggio e lo spirito combattivo della corte inglese facendo l’occhiolino in modo impressionante: «E come si sedette, aggrottò fin contro la gota l’un ciglio e l’altro lo sollevò sino alla radice dei capelli… fu come se gli si martellassero nel cranio tutti i capelli a uno a uno. Avresti giurato che da ciascuno sprizzava una scintilla. Un occhio strizzò a cruna di ago e l’altro slargò come la bocca di un’urna. Snudò le gengive su fino all’orecchio, ripiegò indietro le labbra fino ai denti sotto l’orecchio mostrando il fondo della gola. Gli si alzò sopra la testa l’alone degli eroi».

Forse anche il potere spaventevole di ciclopi derivava dal loro essere monocoli. Ulisse acceca Polifemo non solo per salvarsi, ma anche per decretare la fine di quel mondo titanico, che traguardava le cose verso l’orizzonte, a beneficio dello sguardo totalmente umano, e limitato, sul mondo.

Anche Odino, per restare nella mitografia nordica, è monocolo, o meglio fa sempre l’occhiolino dato che la storia racconta come egli avesse ceduto un occhio in pegno «schiacciandolo perennemente sotto le ciglia», dato che un dio non può essere orbato, per attingere con esso alla Fonte interiore della conoscenza che è ispirazione e mania: al gigante Mimir, che è presente anche nelle bevande fermentate. E quando si beve qualcosa di particolarmente apprezzato, non si strizzano forse gli occhi alla bevanda stessa?

L’Occhio divino è anche centrale nell’iconografia cristiana, come in quella Libero Muratoria che campeggia anche sulla moneta da un dollaro. L’Occhio onniveggente è il suo simbolo stesso. I saggi taoisti, a questo proposito, come gli asceti indiani, si esercitano nell’unificazione dei due occhi alla radice del naso, oppure rovesciandoli indietro per raggiungere il «campo di cinabro», la pietra da cui si estrae il mercurio, simbolo paracelsiano dell’anima.

Per concludere attiriamo l’attenzione su un altro gesto che con l’occhiolino e la benda nera è profondamente imparentato: lo stropicciarsi gli occhi. Anche in questo si cela, per chi ne fosse consapevole, una possibilità di trasmutazione interiore. È ciò di cui ci parla l’ermetista Giulio Camillo Delminio nell’Idea del theatro, recentemente ristampato da Adelphi con le splendide tavole originali. Ebbene, il nostro sostiene che: «Quel raggio di fuoco che dentro di noi risponde all’occhio, il quale noi assai sovente fregandoci alcun degli occhi col dito vediamo internamente in similitudine di fiamma in rota, per la qual rota fiammeggiante spesse volte avviene che noi svegliati, discerniamo le cose».

E così, in conclusione, gesti che un tempo erano carichi di significato, oggi ridotti all’ombra di se stessi, e noi con essi, possono, mercé queste brevi rammemorazioni, tornare almeno a donarci una piccolo scintilla della loro antica funzione, con l’augurio che la luce della sapienza possa raggiungerci sempre mentre facciamo l’occhiolino.